15.12.2024

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La lotta di Giacobbe con l’Angelo di Dio
31 Gennaio 2014

La lotta di Giacobbe con l’Angelo di Dio

 

 

 
«Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?».
Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché disse ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico» (Gen 32, 23-33).
 
 
 
 

 

Giacobbe sta fuggendo davanti al fratello Esaù e deve attraversare lo Iabbok, un affluente orientale del fiume Giordano. Il guado di un fiume è cosa difficile e faticosa, soprattutto quando non si è soli, ma si ha con sé una carovana imponente: mogli, figli, servi, bestiame grosso e minuto… Giacobbe lavora tutto il giorno e alla fine è stanchissimo, spossato. Ma il pericolo persiste: il fratello è alle calcagna con un piccolo esercito. Che cosa succederà? Sarà per lui la fine? Ha trascinato i suoi cari in una avventura senza uscita?
Qui si situa un episodio assai misterioso – che ha sollecitato in modo speciale l’attenzione di commentatori, teologi e anche pittori e scultori –, Giacobbe infatti, anziché seguire i suoi al di là dal fiume, si trattiene nel silenzio e nella solitudine della riva ormai rimasta deserta e, nel buio della notte, si trova a lottare con un uomo. Ma è proprio solo un uomo? No perché alla fine della vicenda Giacobbe conclude di «aver visto Dio» e si stupisce di essere ancora in vita, perché nessuno può vedere Dio faccia a faccia e restare vivo (cfr. Es 33,20). Il profeta Osea commenta così questo episodio: «lottò con Dio, lottò con l’angelo e vinse, pianse e domandò grazia» (Os 12,4-5). Non sempre l’angelo compare nella Bibbia ebraica con il suo nome caratteristico “mal’ak”, cioè “inviato, messaggero”, ma a volte appare semplicemente come “uomo” “’isc”, ed è il contesto che ci fa capire che si tratta di uno di quegli esseri misteriosi attraverso cui si attua la presenza di Dio negli eventi umani. Ecco perché l’episodio è entrato nella tradizione come «la lotta di Giacobbe con l’Angelo», immagine che ha ispirato anche artisti come Rembrandt e Gauguin. Un uomo, un Angelo, Dio stesso… Il momento è solenne. Lo capiamo da un fatto estremamente importante: a Giacobbe viene imposto un nome nuovo. Non è un evento isolato nelle Scritture, perché lo stesso succede – assieme ad altri tra cui anche Sara – ad Abramo («non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham», Gen 17,5) e, nel Nuovo Testamento, a Simone figlio di Giona, a cui Gesù pone il nome di “Kefa” “Roccia” (Mt 16,18). Cambiare il nome non è un fatto solo anagrafico, un evento marginale, perché il nome dice l’essenza, quindi è essere raggiunti nel centro del proprio essere, ricevere un orientamento nuovo di tutta la propria vita… Anche qui “Giacobbe” diventa “Isra’el”, cioè “è forte con Dio”. Ma che cosa successe quella notte sulla riva destra dello Iabbok? Il libro della Sapienza ci mette sulla strada: «gli assegnò la vittoria in una lotta dura, perché sapesse che la pietà è più potente di tutto » (10,12). Stanco, sfinito, dopo la dura fatica del guado Giacobbe avrebbe potuto riposarsi, come facevano tutti gli altri.
Invece si rivelò per quell’uomo di fede tenace che era: cercò la solitudine e il silenzio e si mise in preghiera.
Era «una lotta dura», perché il sonno lo assaliva e a volte pareva vincerlo, ma soprattutto erano i mostri dello scoraggiamento, della sfiducia, della paura che si avventavano su di lui e lo lasciavano pieno di ferite. La preghiera molto spesso non è “tranquilla”, è drammatica. È grido, invocazione, lacrime, battaglia… Essa lascia al nostro eroe addirittura un segno nella carne: la slogatura all’articolazione del femore. Giacobbe cercava una sola cosa: la benedizione, cioè la parola rassicurante, trasformante, efficace di Dio. Essa venne e gli cambiò il nome…
Molto spesso nella preghiera si cerca la tranquillità… E la si fa solo quando si è “tranquilli”, “ben disposti”, quando “se ne ha voglia”… Invece è proprio quando non si è tranquilli che se ne ha tremendamente bisogno, quando incalzano l’ansia e la paura e l’orizzonte è cupo e confuso. «Non posso pregare perché sono troppo agitato, ho troppo da fare…». Se hai molto da fare è proprio allora che devi pregare. È per questo che devi pregare. «Non ho tempo!». Un motivo in più per pregare… cioè per cercare e trovare il tempo di Dio! E non smettere finché non hai vinto, cioè non hai trattenuto l’Angelo di Dio, Dio stesso, nella tua vita. Allora Dio ti benedirà e cambierà l’indirizzo della tua vita, cioè ti cambierà nome.

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 60

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