Intervista a Dawn Stefanowicz, che ha trascorso l’infanzia e la prima gioventù nella promiscuità, tra violenze psicologiche, esposta dal padre a una sessualizzazione esasperata. Resterà per sempre segnata dalle ferite subite nel mondo dei gay. Che ora interrompono le sue testimonianze in modo violento, minacciandone l’incolumità
Sembra che tutto, nella vita di Dawn Stefanowicz, sia stato scritto sin dal principio. La sua ordalia terribile, così come la sua stupenda rinascita, paiono insite in quel nome che probabilmente ben Altri, all’insaputa dei suoi genitori, ha scelto per lei, come sa fare Chi tutto può: Dawn, vale a dire Alba.
Oggi Dawn è una donna matura, sposata da 23 anni, e madre di due figli. Vive in Canada, di cui è cittadina, per la precisione in Ontario. Lavora tutto il giorno, eppure, anche rispondendo a notte fonda alle domande giornalistiche che le arrivano dall’altra parte del globo terrestre, non si sottrae a quella che è per lei diventata una missione di vita: raccontare la verità, tutta la verità delle cose. Alle sue spalle sta infatti un abisso, che allora sembrava senza fondo, raccontato in Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay (trad. it., Ares, Milano 2012), di cui lo psichiatra olandese Gerad van den Aardweg firma la prefazione. Tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima gioventù, Dawn le ha cioè trascorse nella promiscuità e tra le violenze psicologiche, esposta alla sessualizzazione più esasperata di un genitore improbabile e con una madre che, schiacciata dal peso di una situazione assurda, ha finito per divenirne una complice succube.
Dawn, per rendersi davvero conto di ciò che lei ha passato non si può fare altro che leggere il racconto incredibile della sua storia personale. Ma vuole comunque dare un’idea ai nostri lettori dell’incubo da cui alla fine è riuscita a uscire?
«Mio padre era omosessuale e in casa nostra giravano come nulla fosse i suoi partner sessuali, con il timore che alcuni di loro potessero finire anche per abusare dei miei fratelli. Una volta venne da noi un mio amico, di circa 14 anni, e mio padre cercò di adescarlo. Un altro giorno i miei fratelli gemelli assistettero a una scena di sesso gay di gruppo. Mio padre mi portava spesso ai meeting omosessuali e transessuali. A nove anni mi fece entrare in un sex shop per educarmi all’idea che il sesso, ogni tipo di sesso, sia una cosa assolutamente normale. Frequentavamo gli artisti omosessuali e le loro opere irte di simbolismi fallici, o venivo portata nelle spiagge per nudisti che fungevano da luoghi di appuntamento per i gay. Mio padre voleva che in quei luoghi anch’io mi spogliassi, ma sono sempre riuscita a resistere.
Per incontrare i suoi partner, papà girava tutto il Canada, che è un Paese bello grande… Non pago, scendeva poi anche negli Stati Uniti. Tra le sue città preferite vi erano San Francisco, Miami e Ft. Lauderdale. Si arriva, si cerca, in pochi minuti si trova e poi via in un angolo appartato. La “caccia” funziona così, mio padre faceva così. Aveva anche un appartamentino in centro città. Premeva per accompagnarmi ai ritrovi con i miei compagni di scuola. Diceva che anche il ragazzino più naturalmente attratto da una ragazzina può essere sollecitato diversamente. E così mi chiedeva di vestirmi in modo provocante, di presentargli i miei amici… Purtroppo io lo assecondavo. Sapevo che per lui ero solo un oggetto, eppure di mio padre cercavo sempre l’amore e la benevolenza».
E come ne è uscita?
«Mi sono sposata, finalmente; e, dopo nove anni di matrimonio, quand’ero più o meno sulla trentina, e cercavo di finire a fatica gli studi, finii in terapia. Per 13 mesi. Troppo a lungo avevo conosciuto solamente insicurezza, depressione, insonnia e confusione anche sessuale. Ne venni fuori così, ma in gran parte perché avevo imparato a guardare in faccia la realtà tutta intera, compreso ciò che avevo passato. L’idea di potere perdonare il male fattomi persino da mio padre nacque da quella presa di coscienza.
Molti anni dopo, in seguito alla nascita del mio primo figlio, mi sentii però in dovere di raccontare al mondo la mia vicenda. Era il 2004. M’invitarono in una scuola. Alcuni omosessuali fecero però irruzione e interruppero l’evento. Non lo sapevo, ma era solo la prima di molte volte. Le interruzioni delle mie testimonianze si facevano sempre più violente, tanto che cominciai a preoccuparmi per la mia incolumità. Fui persino costretta a farmi scortare alla macchina ogniqualvolta parlavo in pubblico. L’ennesima volta che questo capitò, tornai a casa e mi decisi a mettere tutto per iscritto. Dovevo assolutamente far sapere a tutti, dovevo condividere a ogni costo la mia esperienza. Il libro è nato così».
Cosa le è rimasto di quel vecchio buio?
«Tanta tristezza e molto dolore per mio padre, stroncato alla fine dall’AIDS.
Eppure non ho mai smesso di amarlo. Ammirerò sempre la sua forte etica professionale. Eppure, la solitudine, l’isolamento, le ferite interiori e i lunghi anni di vita trascorsi dentro quel mondo torrido mi hanno per sempre segnata nell’intimo. Mio padre mi lasciava sola per cercare i suoi partner, e così io a mia volta cercavo compagnia dove riuscivo a trovarla. Ho cominciato ad andare con i ragazzi a 12 anni. Oggi fatico ancora a capire a cosa appartengo; non mi sento pienamente parte della società o della mia parrocchia. E penso ai miei bimbi che non hanno nonni, e il mio timore per loro cresce. Mio padre non lo conosceranno mai, e la sua vita è un argomento ostico per loro.
Dawn, mi permetta, indosso i panni dell’“avvocato del diavolo”. Qualcuno potrebbe obbiettarle che la sua è una vicenda singolare, atipica. Che in molti casi, cioè, si convive serenamente con persone omosessuali…
«No. Tutti i disordini che ho subito per quasi 20 anni, e di cui ho cercato di renderle l’idea, sono assolutamente tipici della cultura gay… La sfrenatezza, l’esibizionismo, il pansessualismo… La mia non è affatto una vicenda unica. Attualmente sono in contatto con diverse famiglie cui fanno capo una quarantina di bambini che hanno vissuto esperienze simili e non sempre con esiti altrettanto positivi. La paura, la collera, la depressione e la solitudine sono i lasciti costanti per chi è dovuto passare per questa strada terribile, e in diversi casi la cosa finisce in tragedia. Tra i ragazzi cresciuti con genitori omosessuali, infatti, non è per nulla raro nemmeno il suicidio».
Eppure molti oggi dicono che l’omosessualità è solo una scelta personale di vita come tutte le altre…
«L’omosessualità è solo confusione sessuale. Per svariati motivi, vuoi per certi abusi subiti in età minorile, vuoi per la vertigine di certe “sperimentazioni culturali”, ma meglio ancora per un insieme di tutti questi fattori diversi, una certa parte della società contemporanea vive su di sé, o si provoca, questa confusione sessuale e di genere.
Alcuni dei partner sessuali di mio padre si sono suicidati allorché le loro relazioni s’interruppero. Altri hanno avuto serissimi problemi di alcol e di droga. Per non parlare delle malattie veneree contratte, del contagio da HIV e delle vite innaturalmente brevi che quasi tutti loro hanno sperimentato.
L’omosessualità non è una scelta di vita fra le tante, innocua. La nostra identità è definita solo da Cristo, e da nient’altro o da nessun altro. L’unica sessualità possibile sta nel matrimonio tra un uomo e una donna così come Dio ha voluto. Perché? Perché dentro il matrimonio l’atto sessuale viene a simboleggiare la vera comunione. Quello è il modo sacramentale, sacrificale e non egoistico di darsi l’uno all’altra, di darsi fra persone di sesso diverso. Quando l’atto sessuale si apre naturalmente in questo modo alla vita, spesso ne vengono dei figli. Questo è il senso di tutto. E quei bambini hanno bisogni specifici legati al loro sviluppo che possono essere soddisfatti unicamente dentro una famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna».
Cosa pensa allora della legalizzazione del “matrimonio” omosessuale oggi tanto in voga ovunque?
«Non ci credo affatto. I pericoli insiti nella legalizzazione delle relazioni fra persone dello stesso sesso è che in questo modo i partner, la coppia, il matrimonio, la genitorialità e la famiglia vengono ridefiniti per intero perdendo il loro significato naturale».
Si può uscire dall’omosessualità?
«Sì. Con il tempo, con terapie adatte in grado di affrontare seriamente le cause di quel disagio che sta sempre alla base della scelta omosessuale, e specialmente tornando a nutrire la propria fede e il proprio senso morale con un’autentica ricomprensione di ciò che sono le realtà del matrimonio e della famiglia naturali. Quella omosessualista e quella transessualista sono subculture, e non si deve cadere nella trappola di crederle opzioni politiche».
Per saperne di più…
Dawn Stefanowicz, Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay, trad. it., Ares, 2012. www.dawnstefanowicz.org
IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 42 – 43
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