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12.12.2024

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La morte dell’innocente
31 Gennaio 2014

La morte dell’innocente

La morte di un bambino lascia spesso senza parole. Ma la fede proietta la sua luce risolutiva. Gesù patì una sofferenza crudele. Ma da quel momento, la morte dell’innocente da assoluto non-senso si trasforma nella partecipazione più perfetta a quell’evento di salvezza.

«In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo» (Gaudium et spes 18).
Con queste parole ormai famose perché tanto spesso citate, il Concilio ecumenico Vaticano Il apre la sua riflessione sulla morte. L’uomo è un mistero per sé stesso e la sua misteriosità tocca il suo apice davanti alla morte… Se poi a morire è un bambino, l’immagine stessa dell’innocenza, allora l’oscurità si fa ancora più spessa e la difficoltà tagliente.
La difficoltà non tocca solo “chi ha studiato”, il filosofo o l’intellettuale: essa appartiene al senso comune, quindi è di tutti. Caso mai sarà l’uomo profondo e quindi riflessivo (che non è necessariamente uno che ha studiato) a porsi delle domande e ad avviare una riflessione.
Riflessione tutt’altro che oziosa o “accademica”, perché la vita ha il senso che noi diamo alla morte.
Ma perché la morte e in particolare la morte dell’innocente fa problema?
Perché ogni uomo percepisce la sua vita come un compito da svolgere, come un insieme di possibilità da realizzare, in termini di conoscenze, di esperienze, di realizzazione di sé e la morte di un piccolo appare come un germoglio calpestato o strappato, a cui non è data la possibilità di svilupparsi fino a diventare quel fiore che dovrebbe. A pensarci bene, anche all’uomo maturo la propria vita appare sempre un qualcosa di incompiuto, tanto che – a una certa età – emerge quasi sempre un senso di insoddisfazione per tutti i progetti concepiti da giovani e non realizzati, e – ormai lo si capisce fin troppo bene – destinati a rimanere tali. Questo però lo si può attribuire ad una colpa, vi si può ravvisare una qualche responsabilità, ma… l’innocente?
Un primo barlume di soluzione può essere offerto dal pensiero che non tutto in noi muore. C’è un qualcosa, ci deve essere un qualcosa, che non muore. È quello che – in ossequio ad una venerabile tradizione filosofica che ci viene dalla Grecia – chiamiamo “anima”. Anche qui il senso comune percepisce con sicurezza e certezza questo dato a cui la riflessione fornisce anche delle prove.
Noi siamo in grado di concepire delle idee che non hanno nulla di corporeo. Facciamo un esempio, banale ma non troppo: penso a quella figura geometrica che chiamiamo cerchio. Quello che penso, pur essendo “solo” un pensiero (un’idea, un concetto) ha caratteristiche bene determinate e precise, in termini matematici: “luogo dei punti di un piano equidistanti da un punto detto centro”. È qualcosa dunque di tutt’altro che vago. Ma questo qualcosa non ha nessuna delle caratteristiche dei corpi di questo mondo. Dov’è il cerchio? Che colore ha? Che dimensioni ha?
Qual’è la sua durata? Se ci penso bene sono domande senza senso per il cerchio. Il cerchio non ha né dimensioni date (le può avere tutte), né colore, né tempo. È solo un prodotto della mia mente? Sia quello che sia, è certamente un qualcosa perché lo penso e se penso a niente allora non penso affatto. E se io so pensare a cose che non sono corporee, allora c’è in me qualcosa di incorporeo, qualcosa che non ha nessuna ragione per corrompersi e per finire. Sostituiamo al cerchio altre idee che popolano le nostre riflessioni: bontà, bellezza, infinito, eternità… Il senso comune, se si avventura spassionatamente nella riflessione, può trovare mille conferme.
Ma non trova ancora la pace. Perché se il pensiero che in me c’è “qualcosa” che sopravvive mi salva dall’orribile prospettiva dell’annientamento totale, rimane che è solo una parte di me e io non riesco serenamente ad identificarmi con essa. Alla mia vita appartengono anche colori, sapori, luoghi, ricordi, avventure. Tutte cose legate ad un corpo che certamente, una volta morto, si dissolve. Il volto del bambino si irrigidisce e i suoi occhi non ridono più. Per sempre?
Qui il senso comune e la riflessione a partire da esso non sono più sufficienti. Se «in faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo» proprio in questa sommità, su questa soglia la fede proietta la sua luce risolutiva. «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes 22). Questo non vuoi affatto dire – come spesso purtroppo si pensa – che abbandoniamo il terreno di ogni possibile comprensione e quindi che la ragione umana non ha più niente da dire. Il dilemma – o meglio: l’ingiunzione! – o fede o ragione è un falso dilemma. La fede illumina e porta dunque la ragione ad una riflessione ancora più profonda. Che il Verbo eterno di Dio si sia incarnato e sia venuto a morire e a risorgere per noi non può essere dedotto da nessun ragionamento. Ma se noi accettiamo questo evento come verità di fede, o perlomeno come ipotesi, allora ci accorgiamo ben presto che proietta sui nostri enigmi e soprattutto sull’enigma «sommo» una luce straordinaria. Non sarà che sia proprio vero ciò che risponde così bene alle domande più profonde dell’uomo, anche se rimane nella sua intima natura nascosto al suo sguardo?
Pensiamo alla morte di Gesù. Per evitare che questo pensare sia troppo astratto e quindi troppo lontano dal colore e dal vigore di un fatto, ricordiamo per un momento le immagini dure e sconvolgenti del bel film di Mel Gibson. La morte di Gesù rappresenta la morte nei suoi caratteri più odiosi: una solitudine agghiacciante, un tradimento ributtante, una orribile umiliazione, una sofferenza crudele. Chi soffre poi è un innocente! Ma quella stessa morte contiene in sé – paradossalmente – quanto vi è di più positivo nella vita umana. È obbedienza alla volontà di Dio, è dono gratuito e assolutamente disinteressato, è l’amicizia fedele, è bontà oltre ogni limite. Gesù stesso ne dà l’interpretazione previa prima di offrirsi ad essa, celebrando con i suoi il rito della Pasqua. Quella morte è Pasqua, la verità della Pasqua e Pasqua vuol dire “passaggio”. Il dono supremo è amore perfetto e quindi vita in sommo grado e la morte è vinta. La morte non ha potuto trionfare su di lui e la risurrezione ha aperto per lui e per chi crede in lui il passaggio per una nuova vita. Non più la vita di prima, ma la vita di un corpo ormai divinizzato, glorificato. «La vita non è tolta ma trasformata» canta la Chiesa nel prefazio dei defunti. La morte in Cristo dienta dunque una nuova nascita. Nascita perché la fine coincide con un inizio. Nuova, perché non è più la continuazione della vita di prima, segnata dalla morte e dunque dalla corruzione.
Quell’incompiutezza che segna ogni momento della nostra esistenza terrena trova qui il suo vero superamento. In qualunque atto – anche tra i più belli della vita – c’è sempre il rammarico di non aver donato proprio tutto, di esserci tenuti qualcosa: nella morte in Cristo si dona definitivamente tutto e tutto allora è trasformato. La morte dell’innocente da assoluto non-senso diventa allora la partecipazione più perfetta a quell’evento che è proprio il senso ultimo di ogni cosa: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).

Dossier: Nostra sorella Morte

IL TIMONE N. 37 – ANNO VI – Novembre 2004 – pag. 44 – 45

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