I Paesi poveri sono utilizzati come contenitori dove scaricare i rifiuti dei Paesi del primo mondo. Con gravi danni per la salute, non solo di quelle popolazioni. Il problema è anche etico: perché nessuno tiene conto del bene comune
Nella “Populorum Progressio”, Paolo VI denunciava il ritardo gravissimo dello “sviluppo dei popoli”, che a distanza di oltre quarant’anni da quell’Enciclica è ben lungi dall’essersi compiuto. Le guerre, il commercio delle armi, la droga, il traffico di esseri umani, le condizioni di malnutrizione e la conseguente diffusione di malattie, impediscono a popoli interi del Sud del mondo di affrancarsi dalla loro situazione di miseria e di sottosviluppo.
Negli ultimi due decenni, a questi problemi se n’è aggiunto un altro, di cui si parla molto poco, connesso alle responsabilità delle classi dirigenti politiche ed economiche occidentali: quello di considerare molti territori del mondo delle grandi discariche ad uso e consumo dei paesi ricchi, che riversano in quelle aree una enorme quantità di rifiuti, limitando fortemente l’aspirazione allo sviluppo. Ogni anno, a livello mondiale, vengono prodotte circa 4 miliardi di tonnellate di rifiuti. Secondo le statistiche della Banca Mondiale, i rifiuti solidi urbani passeranno dagli 1,3 miliardi di tonnellate del 2012 ai 2,2 miliardi nel 2025. Il giro di denaro attuale è stimato in un ordine superiore ai 410 miliardi di dollari.
Queste cifre fanno gola a molti nel mondo. Lo smaltimento dei rifiuti è divenuto un business di dimensioni colossali, sia all’interno dei singoli paesi dell’occidente avanzato, sia da questi paesi nei confronti dei paesi sottosviluppati. Nei primi, ci sono norme abbastanza rigorose, per cui il riciclo finisce per costare molto caro. Per smaltire un monitor con tubo catodico in Germania, occorrono 3,50 euro; per spedire lo stesso monitor in Africa o in Asia, bastano 1,50 euro. Per sfuggire ai vincoli, imprese illegali organizzano un continuo flusso verso i paesi poveri di intere navi e ai poveri non resta che smaltire e avvelenarsi, bruciando all’aria aperta la parte di plastica e combustibili delle varie componenti, vendendo poi le ceneri a imprese che estraggono i metalli. In entrambi i casi, si formano fumi e scorie altamente velenose, perché contengono piombo e mercurio in grande quantità, che finiscono nell’aria e nel suolo e poi nelle acque sotterranee.
Dalle cronache giudiziarie appare certo che le reti criminali che trafficano in rifiuti sono in gran parte le stesse che a livello mondiale operano nel campo dei traffici di armi, droga e nella corruzione politica ed economica. In accordo, a volte e spesso con il supporto dell’“ingegneria finanziaria internazionale”, le organizzazioni criminali offrono un servizio alle grandi multinazionali, impegnate nella gara concorrenziale e spinte a realizzare i maggiori risparmi nello smaltimento dei rifiuti. Questo significa che c’è un rapporto tra imprese produttrici di rifiuti e gruppi criminali in grado di assicurarne regolarmente lo smaltimento, senza rischi per le imprese.
Secondo uno studio diffuso lo scorso anno dall’United Nations Environment Programme (UNEP), l’80% dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche prodotti in Europa giungono in Africa, per la maggior parte in Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Liberia e Nigeria. Vecchi elettrodomestici, televisori, molto ricercati perché contengono piccole, ma apprezzabili quantità di oro, argento e molti altri metalli, telefoni fissi e cellulari e computer, schede video, stampanti – 220.000 tonnellate nel solo 2009 di cosiddetti RAEE (Rifiuti elettrici ed elettronici) – sono depositati in discariche incontrollate, minacciando in maniera irreparabile la salute umana e l’ambiente.
Secondo i dati del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, ogni anno nel mondo si producono dai 20 ai 50 milioni di tonnellate di “spazzatura elettronica” e si stima, ad esempio, che in Sudafrica e in Cina i computer che finiranno nella spazzatura aumenteranno dal 200 al 400% entro il 2020 e in India addirittura del 500%. A livello europeo, l’80% dei rifiuti provenienti da materiale elettronico finisce in discarica o negli inceneritori o viene trasportato illegalmente all’estero.
La città di Guiyu, in Cina, è una delle più importanti discariche mondiali di questo tipo di materiale. Nelle discariche lavorano soprattutto i bambini, di età minore di 12 anni, ma anche bambini di soli 5 anni vengono reclutati per lavori leggeri. Stessa cosa avviene a Bangalore, metropoli indiana di sette milioni di abitanti, dove la maggior parte delle imprese che fanno riciclaggio utilizzano sostanze chimiche altamente tossiche ed inquinanti per ottenere dai rifiuti hi-tech materiali da poter rimettere sul mercato. Il porto di Lagos, in Nigeria – dove l’Autorità nazionale di gestione dei rifiuti ha avviato programmi per la produzione di elettricità attraverso il trattamento della spazzatura – è il più importante scalo del traffico illegale di componenti tecnologiche obsolete dirette verso l’Africa. Ogni giorno giungono almeno 17 navi cargo stipate con monitor ed altri dispositivi e tutte battono bandiere europee o nordamericane. Infatti, il sistema più diffuso per occultare grandi masse di rifiuti pericolosi è quello delle “carrette”, navi fatiscenti che vengono fatte affondare. Le navi costruite intorno agli anni ’70, prima che molte sostanze pericolose venissero bandite, relativamente al loro smantellamento, possono essere esse stesse oggetto di traffico di rifiuti pericolosi. Oltre il 90% delle 700 navi che ogni anno – secondo le stime – vengono fatte a pezzi, contengono amianto, vernici contenenti cadmio, ossido di piombo e anticorrosivo al cromato di zinco, tinture contro le incrostazioni composte da mercurio e arsenico e conservano un’ampia gamma di altri rifiuti tossici: PCB, stagno tributilico e diverse migliaia di litri di petrolio. Per lo smantellamento, finiscono sulle spiagge dei paesi poveri.
Questa situazione di illegalità è conosciuta da molto tempo. Sin dagli anni ’80, i responsabili dell’UNEP confermarono che dodici paesi africani avevano firmato dei contratti o ricevuto proposte per accettare l’interramento nel suolo/sottosuolo dei rifiuti provenienti dai paesi industrializzati. La FAO, nel giugno 1992, annunciò che gli Stati in via di sviluppo e soprattutto africani sono diventati una “pattumiera” a disposizione dell’Occidente. In un rapporto del 2007, l’UNEP fece notare il costante aumento delle falde acquifere avvelenate riscontrate in Somalia, che genera malattie incurabili nella popolazione, esattamente come succede in alcune zone dell’Eritrea. In una risoluzione del 2006, il Parlamento europeo affermò che “l’Africa è divenuta terreno di discarica di tutti i tipi di rifiuti pericolosi”.
L’UNICRI, l’Istituto delle Nazioni Unite che si occupa di ricerca e prevenzione della criminalità, ha stabilito che su 88 casi di traffico internazionale di rifiuti illeciti studiati, 75 riguardano l’Italia, come Paese di origine, di transito o di smaltimento dei rifiuti. Nel nostro Paese, in dieci anni il traffico illecito di rifiuti ha portato a 191 inchieste, 1.199 ordinanze di custodia cautelare e 666 aziende coinvolte per un giro d’affari stimato in 43 miliardi di euro. In questo campo, non esiste distinzione tra nord e sud. È coinvolto tutto il paese, soprattutto attraverso i porti di Gioia Tauro, Napoli e Venezia. In Africa, vengono inviati i rifiuti non riciclabili, in Cina soprattutto i rifiuti plastici o polietilene. Lo studio dell’UNICRI dimostra che la criminalità organizzata rivende in Cina questi rifiuti e qui vengono rimessi nel mercato. Per esempio, materiale plastico utilizzato in agricoltura, quindi impregnato di pesticidi, viene lavorato in Cina e così com’è viene utilizzato per produrre biberon o giocattoli o usato per contraffare e sofisticare il cibo immesso nel mercato occidentale.
È evidente che, per quanto riguarda l’Occidente avanzato, non si tratta solo di reprimere i traffici illeciti di rifiuti, all’interno e dall’interno verso l’esterno. Si tratta innanzitutto di ricreare, laddove non ve ne siano, le condizioni del buon governo e della buona amministrazione, impedendo che la criminalità organizzata s’inserisca anche su questo terreno, considerando i rifiuti una risorsa da sfruttare adoperando la tecnologia avanzata. Il problema è globale ed è connesso a quello della manipolazione del creato, a quello della tecnica che non viene governata da una politica che ponga al centro della sua azione la persona, intesa nella sua integrità. In fondo, siamo anche qui nel campo dell’etica, dell’agire avendo come obiettivo il bene comune, della consapevolezza del limite che le azioni umane non devono travalicare e della responsabilità nei confronti dei processi di globalizzazione, che diventano un male irreversibile se non vengono governati.
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 18 – 19
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