L’uomo greco percepisce la presenza di divinità che reggono il cosmo e determinano il destino. A queste si rivolge quando le sue forze non bastano per compiere le proprie aspettative, riconoscendo i propri limiti e impegnandosi a meritarne l’aiuto. È una delle prove di quanto sia profondo il sentimento religioso nell’uomo
«Ascoltami!». Con questa parola inizia nell’Iliade di Omero la prima preghiera della letteratura occidentale: è Crise, il sacerdote d’Apollo che, gravemente offeso dai capi della spedizione achea che sta assediando Troia, si rivolge al dio per ottenere assistenza e difesa. Ancora avvolto dalle nebbie del mito e in assenza di una Rivelazione positiva, l’uomo greco percepisce la presenza di divinità che, in modo sia pure imperscrutabile e magari anche capriccioso, reggono il cosmo e determinano il destino dell’uomo: a queste si rivolge quando le sue forze non bastano per il compimento delle proprie aspettative.
Da un punto di vista formale la preghiera nel mondo pagano presume tre momenti. Innanzitutto l’esatta identificazione del dio: poiché ogni divinità ha una sfera d’influenza precisa, occorre che la richiesta sia indirizzata alla divinità che presiede quel particolare aspetto dell’attività umana.
Poi l’enumerazione dei propri meriti, perché il ricorso al dio presume una condizione: l’aiuto della divinità non è gratuito come quello del Dio cristiano e l’uomo deve avere ottemperato ai suoi doveri nei confronti della divinità: e almeno entro certi limiti la divinità ha il dovere di corrispondere ai meriti dell’uomo (nell’ultimo libro dell’Iliade, Apollo rimprovera gli altri dèi perché permettono che il cadavere di Ettore sia oltraggiato da Achille, nonostante tutto quello che Ettore in vita aveva fatto per gli dèi): questa parte dell’orazione si apre normalmente con un “se”.
Infine l’indicazione della richiesta. Se leggiamo la preghiera di Crise (Iliade, I, 37ss.) vediamo che queste modalità sono tutte presenti: «Ascoltami, dio dall’arco d’argento, che proteggi la divina Cilla e regni con vigore su Tenedo, o Sminteo, se mai ti ho innalzato un tempio a te caro e ti ho bruciato grasse cosce di tori e di capre, porta a compimento questo desiderio: possano i Greci pagare le mie lacrime grazie ai tuoi dardi». L’invocazione al dio è insieme un momento di ripiegamento su sé stesso (perché l’uomo riconosce i suoi limiti e chiede aiuto a chi è più potente di lui) e di impegno: anche il vocabolario esprime questa idea: per “pregare” (eúkhomai) il greco usa un medio, una voce verbale cioè che esprime una intensa partecipazione e un interesse del soggetto per l’azione che sta svolgendo. La stessa cosa si rileva in latino (precor) e in altre tradizioni indeuropee. La parola per “preghiera” (eukhé) contiene in origine anche l’idea di una dichiarazione solenne e può significare anche “vanto”.
Dalla nostra descrizione il lettore può aver tratto l’impressione di un formalismo un po’ gretto. Di fatto, in altre aree del mondo indoeuropeo, come Roma o l’India, si ebbe talora nei culti un’esasperazione degli aspetti formali, ma nel mondo greco l’ansia religiosa non venne soffocata da un’impostazione del genere, e l’uomo cercò in ogni momento di sollevarsi dalla sua condizione di creatura limitata e fragile per cercare soccorso in quegli dèi che, pur essendo frutto della sua fantasia, erano comunque per lui degli esseri immortali e potenti che potevano colmare la sua sete di infinito. Ad esempio, come si vede già dal passo che abbiamo citato, l’invocazione al dio è occasione per effondere una lode alla potenza del signore che viene invocato. Ma può essere che si invochi un dio sconosciuto, come capita a Ulisse nell’Odissea: travolto dalle onde, sbattuto su una zattera alla foce di un fiume su una terra sconosciuta, si rivolge al dio del fiume senza poter vantare nessuna benemerenza verso di lui, e può solo chiedere pietà: «Ascoltami signore, chiunque tu sia: io giungo a te molto invocato sfuggendo al mare e agli insulti di Posidone. Anche La preghiera degli antichi Greci L’uomo greco percepisce la presenza di divinità che reggono il cosmo e determinano il destino. A queste si rivolge quando le sue forze non bastano per compiere le proprie aspettative, riconoscendo i propri limiti e impegnandosi a meritarne l’aiuto. È una delle prove di quanto sia profondo il sentimento religioso nell’uomo agli occhi degli dèi immortali è degno di rispetto chi va vagando fra gli uomini, come sono io adesso, che giungo alle tue correnti e alle tue ginocchia dopo molte sofferenze. Abbi dunque pietà, signore: io proclamo di essere tuo supplice» (Odissea, V, 445 ss.).
Pur con tutti i limiti che l’invocazione pagana può avere, in qualche caso si avverte una partecipazione intensa, con alcuni elementi interessanti: la percezione di un dialogo tra l’orante e la divinità e l’idea che l’intervento del dio non abbia limiti e possa esaudire qualunque richiesta. Ci è rimasta della poetessa Saffo (VI sec. a.C.) l’ode che apriva il libro delle sue poesie, una preghiera ad Afrodite (la Venere dei Greci) che costituisce una delle più sentite preghiere del mondo antico e mostra quanto sia stato profondo in alcune grandi personalità pagane il sentimento religioso. Diversamente dalla prassi usuale, il se che segue l’invocazione non introduce le benemerenze dell’orante, bensì le benemerenze della dea: Saffo ricorda altre occasioni in cui la dea l’ha soccorsa e non invoca la dea in grazia dei propri meriti, bensì perché ha già esperimentato il suo favore e la sua potenza, ed è certa di poterla avere vicina come l’ha avuta vicina in un’altra occasione a lenire e risolvere i suoi patimenti d’amore: «Ti prego: non affliggere il mio cuore con affanni e dolori, o signora, ma vieni qui: se mai anche un’altra volta mi hai ascoltato udendo la mia voce da lontano, e lasciando la casa paterna giungesti qui (…): tu, o beata, sorridendo col tuo volto immortale mi chiedesti perché soffrivo e perché ti avevo chiamato e che cosa volevo nel mio cuore stravolto: “Chi devo persuadere a tornare al tuo amore, chi ti fa del male, Saffo?” […]. Vieni anche ora da me, e liberami da queste angosce, e ciò che il mio cuore desidera, compilo, e tu stessa sii mia alleata» (fr. 1 V., vv. 2 ss.).
Il ricorso al dio nel momento dell’angoscia e della disperazione diventa in certi casi l’unico conforto. Un’eroina del mito, Danae, si trova in una situazione che non lascia scampo. Ha avuto un figlio da una relazione con Zeus, la più potente delle divinità, ma il padre di lei, Acrisio, ha deciso di sopprimere il bambino, perché un oracolo aveva predetto che questi avrebbe ucciso il nonno. Acrisio fa gettare in mare Danae e il figlioletto chiusi in una cassa di legno. Un poeta del VI-V sec. a.C., Simonide, descrive la situazione disperata della donna mentre sente l’agitarsi dei flutti e il soffiare dei venti attraverso le pareti della cassa e mentre culla il bambino abbandonato a un sonno inconsapevole. L’invocazione della donna termina con queste parole: «Dormi, bimbo, e dorma il mare e dorma la sventura smisurata: possa avverarsi un cambiamento, padre Zeus, da te. Ma se pronunzio una parola arrogante e fuori dal giusto, perdonami ». L’ultimo passaggio contiene due importanti caratteristiche. Innanzitutto, la percezione che solo il dio può donare salvezza all’uomo, operando un cambiamento anche nelle situazioni più disperate. In secondo luogo (e questo forse è l’aspetto più interessante) che comunque solo il disegno del dio è azione di giustizia: esso può non corrispondere alle aspettative dell’uomo, ma racchiude un progetto di giustizia più alto a cui l’uomo deve adeguarsi con rispetto: chiedere al dio qualcosa che non corrisponda a questo disegno è un atto di arroganza, un’azione «fuori dalla giustizia», talmente grave da richiedere il perdono da parte del dio.
Uno dei primi scrittori ecclesiastici di lingua latina, Tertulliano, parlava dell’anima naturaliter christiana. Passaggi come questo possono rilevare quanto profondo possa essere il sentimento e il bisogno religioso in culture e uomini che non sono stati ancora toccati dalla Rivelazione.
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«Tra tante specie nessun animale, al di fuori dell’uomo, ha una notizia qualsiasi della divinità, e non c’è fra gli stessi uomini nessuna gente così selvaggia e feroce, che sebbene ignori come si debba concepire Dio, non si renda conto che bisogna ammetterne l’esistenza ».
(Cicerone, De legibus, I, 24, 25).
Per saperne di più…
Laura Cioni – Gino Regoliosi – Paola Tamburini (a cura di), Al Dio ignoto. Preghiere degli antichi, Rizzoli, 1998.
Charles Moeller, Saggezza pagana e paradosso cristiano, Morcelliana, 1951.
Moreno Morani – Gino Regoliosi, Per una lettura del mondo antico, Massimo, 1978.
Hans Urs von Balthasar, Nello spazio della metafisica: l’antichità (vol. IV di Gloria), Jaca Book, 1983.
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