Conosciuto per il suo romanzo Il Cavallo rosso, Eugenio Corti ha pubblicato molte opere riflettendo sull’uomo del XX secolo, inebriato prima e illuso poi da nazionalsocialismo e socialcomunismo che hanno scatenato la Seconda guerra mondiale. Di quest’ultima, uno degli episodi più terribili rimane l’invasione della Russia e la successiva ritirata. Gli abbiamo chiesto di ricordarci quei giorni
Il Trentacinquesimo corpo d’armata è uno dei tre corpi dell’armata italiana in Russia (Armir) che si aggiungono all’Operazione Barbarossa con la quale Adolf Hitler, il 22 giugno 1941, aveva deciso di infrangere il trattato di collaborazione fra Germania e Unione Sovietica, il cosiddetto Patto Molotov-Ribbentrop, dal cognome dei rispettivi ministri degli esteri, e quindi di invadere la terra dominata dall’ormai ex alleato Stalin. L’operazione ha comportato l’invasione di tre milioni di soldati, centomila carri armati e tremila aerei ed inizialmente è travolgente. I russi si ritirano, incendiando le case e distruggendo tutto ciò che non possono portare con loro. Molti si ricordano che questa fu esattamente la strategia vittoriosa dei russi contro l’invasione di Napoleone, e che costò al tiranno francese la prima grande sconfitta e la supremazia sull’Europa.
L’avanzata sembrava irresistibile, così come nel periodo napoleonico, ma i russi, anche questa volta, si ritirarono fino alle soglie di Mosca, dove l’esercito tedesco non poté entrare per il sopraggiungere dell’inverno. Oltretutto l’esercito russo, anche in questa occasione, era senza confronto più numeroso.
1942. In Russia
Io arrivo in Russia nel giugno 1942, un anno dopo l’inizio dell’invasione nazista. Trovo gli italiani attestati all’incirca all’altezza di Mosca, occupando solo la parte ovest delle terre del fiume Don, il “placido fiume”. Per il nuovo anno, la strategia nazista era cambiata e non mirava più all’occupazione immediata dell’intera Russia, bensì all’occupazione al sud delle terre russe oltre il Caucaso dove c’erano i pozzi di petrolio. Gli italiani, nel 1942, erano avanzati tenendosi al sud della sponda del fiume Don e con loro ero avanzato anch’io.
Mi trovavo qui quando in dicembre cominciammo a sospettare che i russi stessero preparando un attacco in grande stile. Lo avevano confermato molti disertori russi e soprattutto il cambio della divisione dei bielorussi che stava di fronte a noi italiani lungo il Don e anche il sopraggiungere di altre truppe fresche composte da usbeghi e tartari.
La battaglia di Stalingrado
Era in corso la battaglia-simbolo della guerra in Russia, quella per il possesso di Stalingrado, la città che portava il nome del segretario del partito comunista sovietico. Per i nazisti, che avevano già dovuto rinunciare alla conquista di Mosca nell’inverno precedente, era fondamentale prendere Stalingrado, più per ragioni d’immagine e psicologiche, forse, che per una necessità reale. Avevano annunciato più volte, in Germania, la caduta della città e avevano mostrato al mondo, attraverso alcuni notiziari popolari tedeschi, la svastica sventolare sulle sue macerie, ma in realtà si trattava soltanto di frazioni periferiche, la conquista delle quali non significava la presa della città.
Mentre questa battaglia davanti a Stalingrado era in corso, il 16 dicembre 1942, i sovietici sferrarono una loro nuova grande offensiva anche nel settore più a ovest, dove c’erano gli italiani lungo il Don. Quanto a noi della divisione Pasubio, fu grande la nostra meraviglia allorché, nel pomeriggio del 19 dicembre, ricevemmo dai tedeschi l’ordine di ripiegare sulla cittadina di Meskoff. Con il solo carburante conservato nei serbatoi, ci mettemmo in viaggio con tutte le macchine.
La ritirata e la “sacca”
Noi della divisione Pasubio ci accorgemmo, a un certo punto, di essere accerchiati, cioè chiusi in una “sacca”. Per 28 giorni, dal 19 dicembre 1942 alla sera del 17 gennaio 1943, trascorsi ore drammatiche nel corso delle quali venne distrutto il XXXV corpo d’armata.
Le nostre “sacche”, cioè quelle composte da soldati italiani, hanno avuto esiti diversi. Dove c’erano gli alpini, con i muli, gli italiani erano autonomi e non succedeva nulla di quello che accadde dove c’erano altri soldati, che seguivano i tedeschi e venivano considerati da questi come un peso. Gli alpini invece riuscirono a rompere l’accerchiamento con le proprie forze e, al contrario, furono i pochi tedeschi frammisti a loro ad andare dietro agli alpini.
Fu in queste occasioni che potei conoscere da vicino la differenza con i tedeschi, che però sarebbe molto meglio chiamare nazisti. Infatti, come specularmente si dovrebbe dire anche per i russi, chiamandoli comunisti, questi uomini si comportarono in maniera così bestiale durante la guerra, commettendo atti così crudeli e inutili, che non sono ascrivibili alle rispettive nazionalità, bensì all’ideologia che si era impadronita di loro. Il nazismo e il comunismo si manifestarono in realtà proprio come due ideologie speculari, entrambe nemiche di Dio e dell’uomo, oltre che mortalmente avverse, peraltro dopo essere state alleate per due anni, dal 1939 al 1941.
Durante il nostro ripiegamento e il tentativo di uscire dalla “sacca”, potei sperimentare l’importanza di mantenere l’ordine e l’unità in ogni circostanza, fatto che agli italiani non riesce evidente come in genere agli altri popoli.
La presenza di Dio e dell’Angelo custode
In quella situazione al limite della sopravvivenza, mi rimaneva Dio, con il quale cercavo di parlare. Provavo a rivolgermi a Lui sul ritmo dei passi, e chiedevo anche al mio Angelo custode di non stancarsi mai di stare al mio fianco.
Non trovavamo facilmente da mangiare, se non qualche patata nelle case russe dove cercavamo di trascorrere la notte, nei villaggi dove le abitazioni non erano state completamente distrutte durante la precedente avanzata dell’esercito nazista. Però il nemico peggiore era il gelo e quindi un tetto qualsiasi era la cosa più ricercata e preziosa, anche se spesso il numero dei soldati era così alto che non tutti riuscivano a entrare nei posti coperti.
Eravamo colpiti anche dal tormento dei pidocchi, perché da un mese indossavamo la stessa biancheria ed era molto pericoloso anche solo esporre parti del corpo al freddo. Affamati, congelati, incalzati dal nemico, approdammo a Tcherkovo, un luogo in cui resistevano alcuni reparti italiani.
L’uscita dalla “sacca”
Quando lasciammo la cittadina il 27 gennaio 1943, dopo furiosi combattimenti dei cannoni anticarro tedeschi contro i carri armati russi, potemmo raggiungere le linee amiche nella città di Bjelovosk dove mi trovai finalmente fuori dalla sacca. Nei giorni successivi venimmo caricati su treni più o meno attrezzati che ci trasportarono in Italia. Io venni scaricato con altri all’ospedale italiano di Leopoli in Polonia dove potei finalmente liberarmi dalla sporcizia e dai pidocchi.
Da lì venni trasferito nell’ospedale di Merano, dove finalmente incontrai i miei familiari.
BREVE CRONOLOGIA
1942
Febbraio. Mussolini decide di incrementare la presenza italiana in Russia, inviando quattro nuove divisioni di fanteria e tre di alpini accanto alle tre già presenti che costituivano il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir). Quest’ultimo cambia nome e diventa l’Armir, l’Armata italiana in Russia, con 230 mila soldati.
Giugno. Le forze dell’Asse, dopo l’inverno, passano all’offensiva, dirigendosi in particolare verso il Caucaso nel sud della Russia, dove si trovano importanti giacimenti petroliferi.
Novembre. Nella Stalingrado assediata dalle forze naziste da mesi, si verifica una controffensiva sovietica, che accerchia completamente l’armata tedesca guidata dal gen. F. von Paulus, che il 2 febbraio 1943 sarà costretta ad arrendersi.
Dicembre. Inizia l’offensiva russa contro le forze dell’Asse attestate sul fiume Don. I reparti di fanteria italiani sono costretti a una ritirata drammatica, con una temperatura fra i trenta e i quaranta gradi sotto lo zero. Pochi riusciranno a uscire dall’accerchiamento.
1943
Gennaio. Il giorno 12 inizia la seconda parte dell’offensiva sovietica che investe anche le truppe alpine, fino ad allora rimaste a difendere la linea del Don. Anch’esse accerchiate, riusciranno a uscire dalla “sacca”, guidate dalla divisione Tridentina, il 26 gennaio, a mezzogiorno. Ma il prezzo sarà altissimo: dei 57mila alpini partiti per la Russia, ne sarebbero tornati soltanto 11mila.
L’Armir verrà sostanzialmente distrutta nel corso della ritirata.
A partire dal 6 marzo, i sopravvissuti verranno rimpatriati in Italia.
Le perdite. Secondo una ricostruzione, nella prima fase della campagna di Russia, tra il 5 agosto 1941 e il 30 luglio 1942, il CSIR ebbe 1.792 morti e dispersi, e 7.858 feriti e congelati. Nella seconda fase invece, fra il 30 luglio 1942 e il 10 dicembre 1942, l’ARMIR ebbe 3.216 morti e dispersi, e 5.734 feriti e congelati. Per quanto riguarda le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata (11 dicembre 1942 – 20 marzo 1943), le cifre ufficiali parlano di 84.830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114.520 militari sul totale di 230.000. Andarono inoltre perduti il 97% dei cannoni, il 76% di mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l’87% degli automezzi e l’80% dei quadrupedi.
Il drammatico destino dei prigionieri italiani
Un capitolo a parte merita l’amaro destino dei dispersi e dei prigionieri della campagna di Russia. Soltanto nel 1954, oltre 11 anni dopo la firma dell’armistizio del 1943, rientreranno in Italia gli ultimi 28 prigionieri. Secondo l’Unione nazionale italiana reduci di Russia, Unirr, che cita fonti delle autorità russe dopo la fine dell’Urss, 95mila sarebbero gli italiani dispersi. Di questi, circa 25mila caddero nelle battaglie sul Don e durante la ritirata, mentre 70mila furono presi prigionieri. Essendone rientrati circa 10mila dal 1943 al 1954, ne consegue che i morti in prigionia sarebbero stati circa 60mila.
Per saperne di più…
Eugenio Corti, I più non ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo. Inverno 1942-1943, Mursia, 1990.
IL TIMONE N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 22 – 24
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