Una pagina di storia dimenticata. Luglio 1945: partigiani comunisti massacrano 54 persone nel carcere di Schio.
A guerra già terminata. Togliatti contrariato, ma aiuta alcuni tra gli autori del massacro facendoli espatriare.
“Disgraziati” sibilò Togliatti, Ministro della Giustizia del Gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, con tono tra il disprezzo e la commiserazione. Era una tarda mattinata del luglio avanzato del 1945.
“Venire proprio lì, dove si amministra la cosiddetta giustizia dello Stato borghese”, commentò il Ministro che era anche Segretario del Partito comunista.
Gli avevo appena riferito della visita che avevo ricevuto nel mio ufficio del Ministero a via Arenula.
“Siamo quelli di Schio”, mi avevano detto quasi all’unisono tre visitatori, con il calcio malcelato di una pistola alla cintola.
“Fammi venire subito Botte e Gallo”, continuò Togliatti citando i due vice segretari Secchia e Longo con il loro nome cospirativo. Con loro, la riunione durò non più di dieci minuti. Li vidi uscire assieme tranquilli, senz’ombra di contrarietà. Togliatti mi passò uno dei soliti piccoli fogli sui quali veniva raccolto il verbale delle riunioni ordinarie della segreteria del Pei. Lo aveva compilato lui stesso con una specie abituale di ordine maniacale.
“Schio”, c’era scritto a sinistra, poi in colonna a destra due altre righe: “Trasferire in luogo sicuro” . Colpevolmente non obiettai nulla, in preda alla mia isolata precipitazione. “Parlane subito con Matteo”, concluse Togliatti con la calma riservata ad una pratica di ordinaria banalità. Matteo fratello di Pietro secchia, era incaricato di tenere i rapporti con due funzionari dell’NKVD, la polizia sovietica, che figuravano tra i diplomatici di rango dell’ambasciata dell’Urss, di via Gaeta a Roma: “Boia Faus, porco boia, ma sti chi, i ien una brigata, stanno diventando un esercito. Ogni giorno arriva qualcuno che deve partire in fretta”, ripetè Matteo con una sorta di curiosità distaccata, espressa in piemontese. Tornai al ministero infilandomi a perdifiato da via delle Botteghe Oscure nel viale che sboccava sul Ponte Garibaldi. Vi trovai in attesa nel mio ufficio, i tre di Schio e dissi ansimando: “La segreteria ha deciso: Praga”.
Li vidi qualche anno dopo. Uscivo con Togliatti e la Jotti dalla Tynsky charm, la chiesa di Tyn in Stare mesto, la Città Vecchia della capitale cecoslovacca. Uno di loro mi viene incontro. “Ti ricordi di me?” Sono di Schio”, disse guardando anche Togliatti. Il partigiano cavò di tasca e mostrò la tessera del partito comunista italiano del 1947, con i bollini mensili tutti regolarmente applicati. Era quella di un normale iscritto al Pci, in trasferta all’estero. Aveva sparato, colpito, veniva ricercato, ma era sto assolto dal Partito e dal Partito aveva ottenuto una copertura “logistica”. Si rivolse di nuovo a Togliatti e gli disse: “Torneremo presto in Italia, dopo la vittoria alle elezioni”. Togliatti girò lo sguardo altrove, ormai disinteressato, come dinanzi ad un innocuo ma fastidioso fantasma. Il fantasma aveva fatto materialmente parte di una ventina di uomini che s’erano riuniti, la notte del 6 luglio 1945, a Schio, una cittadina in collina, venticinque chilometri a nord di Vicenza, in un parco, la Valletta dei Frati, appena fuori dal centro. Erano ex partigiani dei battaglioni “Ramina Bedin”, “Ismene”, della divisione garibaldina “Ateo Garemi” e della Polizia ausiliaria, istituita alla fine della guerra, in maggioranza comunista. Avevano come nome di battaglia “Teppa”, “Morvan”, “Gandhi”, “Quirino”, “Terribile”, “Guastatore” ed altri ancora, che riconoscevano assieme, la supremazia del comandante Igino Piva, detto “Romero”. Ad un segnale convenuto, un colpo di fischietto, con la parte inferiore del viso coperta da grandi fazzoletti, fecero irruzione nel carcere locale, immobilizzarono i guardiani, Pezzin e Girardin, e spararono, al pianoterra e al secondo piano, mitragliando ì prigionieri a distanza ravvicinata.
Uccisero 47 persone e ne ferirono 24, mentre altre 7 morirono in seguito in ospedale. In totale 54, di cui 14 donne.
Nessuno di loro era allo stato legalmente incriminato, ma solo sospettato di essere iscritto al Partito fascista repubblicano, anche per banali incarichi amministrativi. Il 9 luglio giunse a Schio il generale americano Dunlop, comandante dell’AMG per il Veneto, accompagnato da altri ufficiali. Il generale, al termine di una formale inchiesta, parlò chiaramente di “violenza rossa premeditata”, come la Corte di Assise di Milano confermò il 13 novembre 1952, identificando tutti i partigiani responsabili.
“L’Unità” aveva parlato di gruppi incontrollati, poi li aveva definiti ingiustificatamente trotzskisti, quindi nemici del Partito comunista italiano. Ma la stampa di partito aveva in precedenza inveito anche contro i simpatizzanti locali del passato regime: “Sterminiamoli, arrestiamoli, fuciliamoli”. Nel voluminoso libro di un eminente storico di sinistra, Claudio Pavone, sulla Resistenza, pubblicato dieci anni fa, dei fatti di Schio non si trova menzione. L’amnistia del Guardasigilli Togliatti del 1946 alla fine salvò i responsabili del più vasto eccidio perpetrato durante il prolungato periodo della “resa dei conti” dopo la cessazione della guerra: un fiume complessivo di sangue di oltre 15 mila vittime della politica della violenza e del rancore di classe.
BIBLIOGRAFIA
Silvano Villani, L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile, Mursia, Milano 1999.
Massimo Caprara, L’inchiostro verde di Togliatti, Simonelli, 1996.
Armando de Simone – Vincenzo Nardiello, Appunti per un libro nero del comunismo italiano, Controcorrente, Napoli 2001.
IL TIMONE N. 24 – ANNO V – Marzo/Aprile 2003 – pag. 22 – 23