Fino ai 46 anni è stata una suora “normale”: cuciniera e quindi maestra d'asilo. Poi (come Madre Teresa) ha cambiato abito ed è diventata famosa come “quella che salva i drogati con il rosario”. Suor Elvira Petrozzi ha 64 anni e nel 1983 ha fondato la Comunità Cenacolo in una ex villa settecentesca sulla collina sopra Saluzzo: la casa-madre di altre 30 (in Italia, Croazia, Bosnia, Francia, Austria, Usa, Santo Domingo, Messico, Brasile, Irlanda) che oggi ospitano 7 suore e 900 ragazzi e dalle quali sono passati 1800 tossicodipendenti in 17 anni. “Ma non vogliamo contare i successi – accoglie la fondatrice -. La prima cosa da scrivere, qui, è che l'amore salva”.
Suor Elvira: qual è la sua storia?
«Mio papa Antonio, etilista, è stato il primo drogato che mi è passato tra le mani. Eravamo 7 figli e io dovevo servirlo, aiutarlo a mangiare, a vestirsi. Mi vergognavo quando veniva a prendermi a scuola barcollando sulla bicicletta. Per questo dico sempre ai ragazzi che vivono gli stessi problemi in famiglia e poi ne ricavano dei traumi da risolvere con lo psicologo: Dio può rifare ogni cuore ferito. A me, per esempio, ha dato un cuore compassionevole».
E lei ha inventato la “Cristoterapia” per i drogati…
«Non l'ho mai chiamata così, veramente. Preferisco dire che vogliamo ripetere Cristo, che la nostra comunità propone Cristo come punto di partenza».
Ecco, lei rifiuta di separare gli ambiti: prima curo l'uomo – dicono invece altri “preti della droga” – poi semmai converto il cristiano.
«Ma questa è una distinzione che non regge. Dio non ha fatto così: prima creo il corpo e poi lo spirito… L'uomo è un mistero che solo chi l'ha fatto conosce. E allora io mi metto in ginocchio per impararlo da lui. Perché nessun libro e nessuna psico-analisi possono arrivarci. Del resto, io ho solo continuato il sistema che ha fatto bene a me; incontrarmi con Gesù Cristo e il Vangelo, compresa la croce, mi ha portato ad essere una donna serena, libera, coraggiosa anche, senza paure. Il nostro metodo è quello della vita, che da duemila anni risana, da la gioia e restituisce la pace».
Il metodo, dite voi, della “resurrezione”…
«Difatti non chiamiamo i nostri centri “comunità terapeutiche” bensì “scuole di vita”. Noi orientiamo senza mezzi termini e anzi precediamo i giovani verso la costruzione della persona in quanto tale e in quanto figlio di Dio, voluto a sua immagine. È un'immagine che non si può distruggere, e noi lo constatiamo. Anzi la ricostruzione fa l'uomo migliore di prima».
Per questo lei fa recitare il rosario tre volte al giorno? Come le medicine.
«No: come i pasti. Come si nutre il corpo per lavorare, così la preghiera sostiene la gioia, la speranza, la pace. Sì, noi abbiamo uno spiccato affetto per la Madonna. È importante avere dei modelli e il nostro primo – soprattutto per la donna ma anche per i ragazzi – è lei».
Ma perché tre volte al giorno?
«A Lourdes, a Fatima e anche a Medjugorje (dove abbiamo una forte comunità da oltre 10 anni), la Vergine continua a raccomandare il rosario. Evidentemente in quella preghiera c'è un potenziale misterioso e nascosto che guarisce. Io lo consiglio ai giovani in difficoltà, alle coppie che si scontrano: cominciate a dire il rosario. Con tutto il rispetto per le scienze umane, credo che non siano sufficienti a guarire le piaghe del tossico. La corona guarisce la psiche, è una forza che passa nelle vene. È una presenza, non solo un segno».
La vostra regola è molto esigente, a volte dura.
«Sì, sì. Ci sono state indagini in proposito: è la comunità più severa. Perché? Perché c'è la croce. Perché noi parliamo di croce e invitiamo e aiutiamo i ragazzi a portarla. Quando escono dalla comunità facciamo una festa in cui consegno a tutti proprio il crocifisso e il rosario: il primo perché lo incontreranno subito e il secondo per difendersi dalle difficoltà. Li abbiamo accolti in ginocchio e li congediamo in piedi».
Ma questi ragazzi sono deboli anche psicologicamente: non c'è il rischio di creare un'altra dipendenza?
«Beata e benedetta dipendenza! Anzitutto so che non violo la loro libertà, perché la vera libertà è conoscere chi ti ha creato, anzi è un loro diritto e un nostro dovere trasmettergli la verità tutt'intera. Certo, è una verità che proponiamo in maniera molto graduale e differenziata, perché ciascuno ha la sua esperienza. Però a noi non basta la guarigione, vogliamo la salvezza. Se li togliamo dalla droga e basta, saranno ancora dei disperati».
Da lei nessuno paga rette. Perché?
«Questa di non accettare contributi dalle istituzioni pubbliche è davvero la mia scelta più bella. Perché significa essere coerenti: qui i ragazzi capiscono che noi crediamo davvero alla paternità di Dio quando vedono arrivare i camion di provvidenza grazie ai quali mangiano ogni giorno. E poi anche per rispetto verso di loro: i contributi statali sono soldi di tutti, perché la società deve pagare per questi ragazzi? Non sono mica in sedia a rotelle, non gli mancano intelligenza o forza… Sono loro semmai che devono pagare, facendo sacrifici e lavorando».
Chi sono allora i tossici per lei?
«A me sembrano degli urlatori che vogliono annunciare alla nostra società qualcosa di più grande e vero, di più duraturo. Vuoi che Dio non conosca il motivo di una piaga così dilagante come la droga? I tossici nascondono una profezia in loro, noi – soprattutto noi cristiani -dobbiamo leggerne il messaggio. Anche se non posso non dire che stanno percorrendo un doloroso calvario pure per colpa nostra: abbiamo infatti lasciato dietro di noi e davanti a loro la confusione, la menzogna della vita, il tutto e subito, la cultura per l'arrivismo e il potere, per l'avere».
IL TIMONE – N. 9 – ANNO II – Settembre/Ottobre 2000 – pag. 8-9