«Beati gli afflitti perché saranno consolati» (Mt 5,4); «Beati voi che ora piangete perché riderete» (Lc 6,21). Siamo dunque giunti, nelle due versioni, quella di Matteo e quella di Luca, alla seconda fra le tre Beatitudini che i maestri spirituali considerano di “purificazione”. Tre Beatitudini, dunque, che sono come tre passaggi spirituali pressoché indispensabili per riuscire a inoltrarci in quelle successive.
Così, insieme ai “poveri nello spirito”, dei quali abbiamo già parlato, e in compagnia dei “miti”, di cui ci occuperemo la prossima volta, ecco dunque che Gesù proclama “beati”, coloro che sono afflitti – Luca addirittura precisa: coloro che hanno gli occhi colmi di lacrime – perché questa loro sofferenza, egli lo dà per certo, verrà tramutata in gioia.
Non sarà inutile ripetere che, in questo nostro lavoro di messa a fuoco su quella che si presenta come una sorta di “scala” per penetrare il più possibile nel mistero divino e goderne di conseguenza i benefici effetti, ci stiamo muovendo nel pieno dei paradossi evangelici. Cioè di quell’ottica che sembra ribaltare completamente l’apparente buon senso che regge il mondo, il quale afferma invece che è felice proprio chi non ha motivi per essere triste, coloro i cui occhi non conoscono lacrime. E che dunque, di conseguenza, è bene cercare di vivere in modo da evitare il più possibile e gli uni e le altre.
Eppure, a dimostrazione che ciò che Gesù afferma e propone non è pia illusione ma la verità, c’è anzitutto quella sua stessa vita che, terminata tragicamente nel pianto e nella afflizione della morte, si è invece presto rigenerata, ancor più perfetta, nella risurrezione. A confermarcelo ulteriormente c’è pure tutta l’ormai lunga storia della Chiesa da lui fondata, la quale ha sempre preso molto sul serio, anche a questo proposito, le sue parole. Per esempio, dichiarando santi, cioè elevando alla gloria degli altari quei suoi membri migliori che, tra le tante virtù, hanno avuto sempre anche quella di sopportare con pazienza e fiducia molte afflizioni. Santi che, tra l’altro, sono stati dichiarati tali solo dopo che hanno dimostrato con qualche miracolo che la loro vita aveva avuto davvero l’esito promesso nel Vangelo: essere entrati a far parte di quella eterna beatitudine divina dalla quale ora potevano farsi a loro volta mediatori di gioia, apportando guarigioni nel corpo e nello spirito ai fratelli ancora impegnati nell’agone della vita terrena.
Indubbiamente, un mistero grande e stupefacente questo del dolore che si trasforma in gioia, del pianto che si trasforma in riso. Un passaggio che, a ben vedere, appare non un accidente fortuito e casuale del genere “a chi la tocca, la tocca”. Ma che sembra presentarsi addirittura come una necessità, una sorta di percorso obbligato per tutti, percorso nel quale, la tradizione ci insegna, esistono delle tappe che vanno percorse. Non dimentichiamo a questo proposito che esiste addirittura una preghiera che ha il fine di aiutarci a comprendere: quella per ottenerci nientemeno che il “dono delle lacrime”. Vediamo allora di prenderne insieme coscienza.
Afflizione, tristezza, pianto. Per che cosa? Certamente per le malattie, per i dolori che ci toccano personalmente. Ma non basta, perché tutto ciò è già conseguenza. Quella afflizione di cui parla il Vangelo nasce invece dal risalire fino alla radice di quei dolori, fino a scovarne l’origine. Giungere, cioè, a provare pena e rincrescimento in seguito alla presa di coscienza che il peggiore dei mali, quello dal quale poi tutti gli altri derivano, è uno solo: ed è il peccato. Cioè, è il rifiuto di Dio, è la chiusura totale o parziale a lui, è il non corrispondere all’amore che egli nutre per ogni uomo: dunque, anche per ciascuno di noi.
È capire insieme la grandezza straordinaria del nostro umano destino: essere chiamati, da creature, a condividere, e per l’eternità, la vita stessa del Creatore in una beatitudine d’amore senza fine. Ma al contempo avere la netta percezione dell’abisso che tra noi è frapposto. Abisso di debolezze, di limiti, di paure, di angosce, di tentazioni, di cadute che premono da ogni dove e che rendono la vita difficile e assai spesso dolorosa. Una voragine profondissima che solo la misericordia divina può colmare. Misericordia che tuttavia, dato il grande rispetto che Dio ha per la nostra libertà, richiede almeno qualche briciola di presa di coscienza quale appunto una afflizione del cuore può esprimere.
«Mio Dio, sì, sono assai triste. Sono anch’io tra quegli affaticati e stanchi di cui parla Gesù. Sono assediato e penetrato dalla sofferenza. Mi sento oppresso, quasi schiacciato dal peccato mio e da quello degli altri. Da tutta questa incapacità di amore che si trasforma in male. In un male multiforme dalle mille facce che avvolge il mondo intero; un male che travolge i colpevoli ma che non risparmia neanche gli innocenti…». I Salmi traboccano di questi lamenti indirizzati al Cielo dall’uomo che finalmente riconosce i suoi limiti e si rifugia in Dio, il grande consolatore. E che per questo, subito dopo, può di nuovo rivolgersi verso l’alto con parole di ringraziamento e di lode: «Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?… Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto…». Invocazioni imploranti amore accogliente, pietoso e comprensivo, in quel luogo di incontro che è il cuore umano. Un contesto nel quale può allora acquistare un significato anche la sfumatura diversa dei due evangelisti: l’afflizione di Matteo e gli occhi colmi di lacrime di Luca. Sopra, infatti, parlavamo del “dono delle lacrime”. La Chiesa lo ha sempre sostenuto. Ma la psicologia ha ulteriormente chiarito come ciò sia un passo avanti sulla via di un possibile cambiamento. Sia il segno di un dolore che si fa cosciente, che finalmente prende forma e inizia a manifestarsi; di un blocco che inizia a sciogliersi, di un cuore che cerca il contatto, la corrispondenza, la consolazione.
Ma se questa presa di coscienza è la prima tappa, ne esiste anche una successiva. Agli affaticati e stanchi, infatti, Gesù propone chiaramente non solo di andare a lui ma anche di “prendere la propria croce” e di seguirlo, promettendo tuttavia che quel giogo sarà “soave” e quel carico “leggero”. È il coraggio non solo di piangere per il male nostro e del mondo, ma di caricarselo sulle spalle. Però non per esserne distrutti, come avverrebbe se contassimo solo sulle nostre forze. È infatti alla maniera di Gesù, che appunto esso diventa “soave” e “leggero”. E questo perché è l’amore di cui è intriso che lo trasforma da masochismo patologico in possibilità di redenzione e di vita.
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 56-57)
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