Nella concezione evangelica è “giusto” anzitutto colui che ambisce alla verità con lo stesso desiderio e bisogno con cui si cercano cibo e acqua. L’esempio di Giuseppe davanti alla gravidanza di Maria
«Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati».
Ecco come Matteo (5,6), all’interno del Discorso della Montagna, presenta questa nuova beatitudine, la quarta. Luca, lo sappiamo, al proposito è più stringato: «Beati voi che ora avete fame perché sarete saziati». Seguito però, poco dopo, dalla corrispondente maledizione: «Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame» (Lc 6,21). I due evangelisti si rinforzano a vicenda permettendo, alla fine, una maggiore comprensione.
Dunque, fame sì, per entrambi, ma anche sete. La dizione più completa di Matteo ci fa così intuire, come nel caso della beatitudine della povertà, qualcosa in più. E cioè che la tensione verso l’obiettivo “giustizia” qui proposta va intesa con pienezza totale e senza limite alcuno. Debba, cioè, essere simile a quella che spinge l’essere umano a procurarsi non solo il cibo, attraverso il meccanismo della fame, ma anche l’acqua attraverso quello della sete. La terminologia usata ci aiuta così a capire. Del resto, la gente alla quale Gesù si rivolgeva, aveva diretta esperienza di climi aridi e di terre desertiche, così certamente conosceva assai bene che se si può resistere qualche tempo senza mangiare, si sopravvive ben poco senza bere.
Ciò significa che la giustizia alla quale siamo qui invitati non è nell’ordine dei desideri vaghi e al limite superflui, ma è invece qualcosa che risponde a dei bisogni vitali del nostro spirito proprio come la fame e la sete rispondono a delle esigenze determinanti per la nostra stessa sopravvivenza fisica.
Ma cos’è allora questa “giustizia” che deve impegnarci così profondamente? Non è certamente ciò che noi intendiamo generalmente in prima battuta con questo termine: cioè una regolazione corretta dei rapporti umani in base alla quale ciascuno debba avere ciò a cui ha diritto. Certo, anche questo aspetto sarà alla fine ricompreso nelle conseguenze pratiche che ne deriveranno. Ma non è il significato principale perché “giustizia”, in questo caso, è anzitutto e prima di tutto la conseguenza di un altro aspetto che viene prima di ogni altra cosa e sta al centro di tutto. E cioè di quella verità alla quale ogni comportamento umano va rapportato. Così, in questo senso, è “giusto” anzitutto colui che ambisce alla verità con lo stesso desiderio e bisogno con cui si cercano cibo e acqua. E che poi, avendola desiderata con tutto se stesso, la comprende e la rispetta proprio in quanto verità. Cioè le rende ossequio e merito, vi si adegua, le obbedisce e la mette in pratica.
E qual è la prima e più grande verità se non quella di riconoscere che Dio esiste e che noi, in quanto creature, siamo indissolubilmente legati a lui? E per un cristiano, in più, quella di arrendersi al fatto che tale Dio sia Amore in se stesso e verso di noi e dunque di corrispondere a questo amore gratuito, lasciandosi abbracciare da quelle braccia sempre protese verso ogni uomo?
Se questo è vero, allora è forse proprio a causa di questa mancata “giustizia” – che nella cultura attuale è purtroppo così diffusa – se gli uomini d’oggi sono spesso così infelici, così bisognosi di sostegni psicologici, di farmaci ansiolitici e di quant’altro possa sostenere il loro spirito che ondeggia di qua e di là senza trovare un luogo sicuro in cui approdare. È la maledizione di Luca: «Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame». Ricordate le parole del cardinale Giacomo Biffi quando parlava della sua Bologna, della quale era allora arcivescovo, quando la definiva «sazia e disperata»?
Una ingiustizia profonda e radicale che è il frutto velenoso delle tante ideologie che dall’illuminismo in poi sono andate susseguendosi le une alle altre. Divise su tutto, spesso contrapposte, ma unite su un punto: l’uomo non ha nessun bisogno di Dio, può farcela benissimo con le sue sole forze. Credere nel soprannaturale è fuorviante, anzi è addirittura alienante.
Ma è l’esperienza stessa, ora, a insegnarci il contrario, a svelarci le conseguenze negative di questo modo di pensare. Ora che non sappiamo più cosa fare per arginare i fenomeni negativi che toccano i singoli, le famiglie, l’intero contesto sociale, ora che tutti i valori sembrano messi in discussione e sradicati fin dalle fondamenta.
A questo punto non dovrebbe poi essere così difficile capire che la vera alienazione, la vera ingiustizia è quella di non riconoscere a Dio il posto che gli tocca. È quella di staccare la creatura dal suo creatore. È toglierle le direttive giuste per la sua vita, lasciarla sola, senza guida, senza senso, senza meta.
Ma non è tutto perché è da questa prima e basilare giustizia che derivano tutte le altre. Perché è il riconoscere Dio e dargli il posto giusto nella nostra vita che cambia radicalmente anche il nostro rapporto con gli altri. E che ci fa diventare davvero giusti, cioè davvero capaci di riconoscere gli altri come dei fratelli non solo da rispettare, riconoscendo i loro diritti – che è il minimo – ma soprattutto da amare, che è molto di più.
C’è un esempio a questo proposito nella Scrittura che ci può insegnare molto. Lo troviamo in Matteo, nel capitolo primo (18-19): «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto». Riflettiamo: il sì di Maria ha già operato le sue conseguenze; ella infatti già attende il redentore. Ma ora è necessario un altro sì affinché quel piccolo, straordinario uomo che si sta formando e che tra qualche mese vedrà la luce trovi l’accoglienza e la protezione di una famiglia. Il sì di Giuseppe, il quale, tuttavia, è profondamente colpito dagli strani eventi che si stanno compiendo attorno a lui. Giuseppe, quest’uomo è però così impastato di giustizia da non mettere in discussione – nemmeno di fronte a ciò che almeno a viste umane appare davvero incredibile – il suo rispetto verso Dio e, di conseguenza, verso Maria. Il suo cuore, infatti, è così giusto e ordinato al bene che gli permette di rimanere calmo al punto di decidere di operare con il massimo della carità possibile in quel contesto: licenziare la promessa sposa in segreto.
E invece, sarà proprio questa sua “giustizia” profonda e radicata ad attirare qualcosa di straordinario. È sempre la Scrittura a dircelo. Infatti: «Mentre stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua sposa perché quello che è generato in lei è opera dello Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”». Così Giuseppe entra a far parte dei segreti più intimi di Dio e del suo progetto di redenzione. E questo perché Giustizia chiama giustizia o meglio sarebbe dire perché Amore chiama amore. Perché, in altre parole, Dio si svela a chi sa davvero riconoscerlo e accoglierlo.
Ricorda
«San Giuseppe era giusto, era immerso nella Parola di Dio, scritta, trasmessa nella saggezza del suo popolo, e proprio in questo modo era preparato e chiamato a conoscere il Verbo Incarnato – il Verbo venuto tra noi come uomo –, e predestinato a custodire, a proteggere questo Verbo Incarnato; questa rimane la sua missione per sempre: custodire la Santa Chiesa e il Nostro Signore». (Benedetto XVI,
Discorso a conclusione degli esercizi spirituali della Curia romana, 19 marzo 2011)
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