Guardare in faccia il male senza esserne travolti. Perchè si è consapevoli dei propri e altrui limiti e coscienti di essere tutti, sempre e comunque, peccatori bisognosi di perdono. Così è il cuore mite.
C’è un passaggio che riguarda la nostra vita psichica e spirituale e che coinvolge al contempo un atteggiamento umano maturo, ma anche una capacità di vivere quella forma di carità che è la mitezza. Proprio su questa mi piacerebbe intrattenermi un po’.
Tutti noi inevitabilmente risentiamo non solo dei grandi dolori che la vita ci riserva ma anche di tutte quelle quotidiane sofferenze che ci procurano le incomprensioni, le mancanze di carità, le rozzezze degli altri nei nostri confronti. Quel non sentirei in sintonia, quel percepirei come non accettati da coloro da cui ci attendiamo amore o anche solo rispetto e che, invece, ci procurano una ferita interiore e un profondo senso di dolore. Una sofferenza alla quale possiamo reagire in modi diversi, che vanno da una risposta aggressiva, che mira a correggere quella che a nostro avviso è un’ingiustizia, oppure da un dolore che resta più nascosto ma che comunque intacca, magari a lungo, la nostra serenità e la nostra pace interiore.
Occorre dire che non tutti siamo sensibili allo stesso modo. Chi è cresciuto in un contesto equilibrato, amato e accettato nel modo giusto, saprà, crescendo, regolare più facilmente i nuovi rapporti nei quali si troverà coinvolto, aggiustando il tiro, se così possiamo dire, a seconda delle circostanze. Chi, invece, si affaccerà alla vita adulta con quella che viene chiamata “la ferita dei non amati” più difficilmente riuscirà a trovare il modo giusto di relazionarsi, rischiando di oscillare da una chiusura agli altri eccessiva e magari un po’ cinica, ad una ipersensibilità che lo espone ad una frequente, se non continua, sofferenza interiore.
Che fare? Anzitutto, credo, cercare di capire. Cercare, cioè, di rendersi conto delle dinamiche psichiche e spirituali che sono coinvolte. Ognuno di noi è una persona, cioè, al contempo un corpo, una psiche, uno spirito che costituiscono tra loro una profonda unità; una persona dotata di libertà e autonomia, ma anche della capacità di saper entrare in relazione con quanto lo circonda. Un uomo o una donna che, per vivere bene con serenità e pienezza, hanno bisogno e dell’una e dell’altra cosa. Un essere, quello umano, che ha dunque bisogno di muoversi verso l’esterno per dare e ricevere soprattutto amore, ma che poi ha la necessità di rientrare in sé per cogliere la propria unità profonda, la propria personale diversità, in una parola la propria essenza.
Ebbene, quando c’è qualche immaturità nell’uno o nell’altro di questi due aspetti della persona, c’è inevitabilmente anche sofferenza. E nel caso specifico di cui stiamo parlando – cioè di una sensibilità eccessiva che turba il rapporto con gli altri e di conseguenza anche la propria interiorità – c’è come una sorta di dipendenza che, anche se non ce ne accorgiamo, limita, spesso in modo notevole, la nostra libertà.
Perché, in questo caso, il nostro “senso di sé” e, di conseguenza, il nostro stato d’animo, il nostro umore, la nostra serenità non dipendono tanto e soprattutto da come noi ci percepiamo, ma da come avvertiamo che gli altri ci vedono: se ci sembra che ci accettino, che ci capiscano, che ci rispettino, che ci amino ci sentiamo felici, in caso contrario ci ritiriamo dolenti e feriti, spesso turbati fin nel profondo e magari a lungo. Piaghe che, se non guarite, si aggiungono ad altre piaghe, fino a ricoprirci tutti e a rendere la nostra vita davvero faticosa. È la difficoltà ad accettare i rifiuti, le critiche, le contraddizioni giuste o ingiuste che siano. È lo stare sempre interiormente tesi, il nutrire un atteggiamento di apprensione o di difesa eccessivi. È il non sapersi aprire e ritornare in sé con sufficiente sicurezza ed elasticità, il non saper nutrire il giusto senso di sé, il non sapere affrontare e smaltire quelli che ci appaiono, o che realmente sono, degli attacchi alla nostra integrità psichica. Per riassumere il tutto in poche parole: è come se ogni comportamento degli altri che ci ferisce fosse una sorta di amo al quale abbocchiamo, un’esca che ci attira in modo eccessivo e alla quale non sappiamo guardare con sufficiente oggettività e dalla quale non siamo in grado di prendere le distanze in modo corretto.
Ma che c’entra il Vangelo in tutto ciò? C’entra, perché in realtà, proprio per quell’unità della persona di cui prima parlavamo, a questa immaturità psicologica corrisponde spesso anche un’immaturità spirituale. È il segno che non abbiamo ancora fatto abbastanza spazio a Dio nella nostra vita. Che non siamo ancora ben centrati su di lui. Che non abbiamo ancora sufficiente coscienza dell’ordine vero delle cose perché noi stessi, la nostra reputazione, la madre, il padre, il marito, i figli e quant’altro vengono ancora prima di lui. Cerchiamo, insomma, troppo amore e sicurezza in chi non è in grado di darcele se non in misura limitata. Però è anche vero che, prendendo coscienza di ciò e operando il passaggio, faticoso ma importantissimo, che consiste nel riconoscere l’Assoluto e nell’abbandonarci a lui, possiamo riuscire a convivere meglio con le nostre fragilità e guarire così il nostro cuore.
E questo perché, se è vero che eredità biologiche e situazioni ambientali sfavorevoli possono averci lasciato debolezze e ferite anche profonde, sensibilità particolarmente accentuate, squilibri affettivi che ci fanno soffrire, è anche vero che, a tutto questo, può porre rimedio la scoperta dell’Amore. Quello paterno, totale, fedele, di cui il nostro essere ha bisogno e che è quello di Dio. Così, è facendoci consolare e accarezzare da lui che possiamo ritornare davvero rinfrancati tra le difficoltà del mondo, tra coloro che spesso non ci accolgono e non ci capiscono e che noi a nostra volta spesso non accettiamo e non capiamo. È attingendo ogni volta alla certezza della sua accettazione e del suo amore nei nostri confronti che poco a poco acquistiamo quella sicurezza, quella forza anche psicologica, quella calma interiore che ci consentono di vivere con levità, con dolcezza, con mitezza. anche in mezzo alle contraddizioni e alle sofferenze.
È riposando sul suo cuore misericordioso e comprensivo che possiamo davvero guarire il nostro e guardare con misericordia a quello altrui.
Perché solo in paradiso, tra noi umani, le cose andranno davvero bene. Solo là sapremo davvero amarci, dandoci gioia piena l’un l’altro. Ma ciò avverrà proprio perché allora finalmente Dio sarà “tutto in tutti”. Qui non è ancora così. Quaggiù, spesso in buona fede e nonostante la migliore volontà, i limiti degli uni cozzano contro quelli degli altri e le fragilità si scontrano dolorosamente tra loro. Per questo, se vogliamo migliorare le cose, dobbiamo cercare fin da ora di portare al massimo grado Dio tra noi, ponendo sempre lui al centro dei nostri rapporti, cercando sempre più di amare noi stessi e gli altri con il suo cuore.
Cioè con comprensione, con misericordia, con benevolenza, con umiltà, con mitezza. Sì, perché spesso c’è molta inconscia superbia in quella ipersensibilità che ci caratterizza. Frutto a sua volta di fragilità interiore. Abbiamo una così bassa autostima da non saper sopportare le offese o anche solo qualche giusta o ingiusta critica. Ma chi, se non colui che ci ha voluto alla vita e che ci segue con amore, può donarci la vera sicurezza interiore che il nostro essere è importante, checché ne pensino gli altri, che la nostra esistenza ha un valore enorme, addirittura eterno? E allora, di fronte a tutto questo, che senso ha smarrirsi per qualche comportamento che può anche ferirci ma non turbare la nostra pace profonda? Non ricordate lo Jesus autem tacebat, di fronte a Pilato? Eppure avrebbe ben saputo e potuto difendersi!
Ecco questa è la mitezza, la vera mitezza.
Quella che sa guardare in faccia il male. Ma che non ne viene travolta, perché si pone di fronte ad esso con cuore pietoso, con la consapevolezza dei limiti di ciascuno tranne che di Dio, con la coscienza di essere tutti, sempre e comunque, peccatori bisognosi di perdono.
Ricorda
«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime».
(Matteo 11 ,28-29).
IL TIMONE – N.68 – ANNO IX – Dicembre 2007 pag. 56-57