Se una è la Causa prima del mondo, se uno solo è Dio, se una sola è la verità su di Lui, allora una sola è la religione vera. È il Cristianesimo. Ecco qualche ragione.
Perché siamo cristiani piuttosto che musulmani o buddisti? E perché non rifiutiamo l’idea stessa di religione e non ci professiamo “laici”, cioè (secondo l’uso italiano corrente) miscredenti o atei? Siamo in un’epoca storica nella quale la religione è divenuta per tutti un’opzione libera (questo vuol dire, in politica, quella “libertà religiosa” che ogni Stato dovrebbe garantire ai cittadini). Ma nessuna opzione è libera se non è ragionata, se non è una scelta coscientemente motivata, consapevole delle ragioni che ci sono per agire in tal senso. Ci devono dunque essere delle ragioni per scegliere di essere cristiani, e queste stesse ragioni sono quelle che giustificano la nostra convinzione di non dover essere musulmani o buddisti, e tanto meno atei.
Per tutti noi credenti, il problema è di rimettere costantemente in luce e rafforzare sempre più nella nostra coscienza le ragioni della nostra fede, che altrimenti rischia di franare sotto l’impeto delle ragioni (sofistiche) che militano a favore delle altre religioni o della miscredenza. Si tratta, insomma, di proteggere e far crescere la nostra fede con la meditazione e lo studio. Come ama ricordare un autorevole teologo, che è anche vescovo ausiliare di Roma e rettore della Università Lateranense, «la fede richiede la fatica di uno studio costante e sistematico, perché il mistero che si ha di fronte mette perennemente in gioco l’esistenza personale» (Rino Fisichella, La Rivelazione: evento e credibilità, EDB, Bologna 20028, p. 203). Purtroppo, nell’epoca in cui viviamo, caratterizzata dall’irrazionalismo (che influisce anche nella coscienza di coloro che professano la fede cristiana), si può costatare che ben pochi credenti si impegnano per il necessario approfondimento delle ragioni della fede; allo stesso tempo, però, se un adulto della nostra società multi-culturale e multi-religiosa non si lascia trascinare dalla deriva secolaristica, persevera nel professare la religione cristiana e non si converte all’Islam, vuol dire che costui ha fatto una scelta basata su un qualche motivo razionale, almeno implicito.
Certamente, l’impegno di coscienza con cui il soggetto si accinge alla conferma e all’approfondimento di quelle che sono le ragioni della sua fede è di tipo “spirituale”, cioè morale; ma ciò non toglie – anzi presuppone – che il suo assenso a una scelta religiosa sia dettato dalla ragione, perché solo la ragione può fornire la certezza di conoscere la verità. È impossibile professare e praticare la fede religiosa se ci si lascia irretire dai sofismi del “pensiero debole”: serve proprio un pensiero “forte”, capace di certezze fondate, perché «nessuno […] potrebbe compiere un atto definitivo con il quale finalizzare tutta la propria esistenza, fondandosi su una premessa che si manifesta provvisoria e incerta. L’esistenza ne sarebbe segnata negativamente e si svilupperebbe all’ombra della precarietà e, di conseguenza, del dubbio e dell’angoscia» (Rino Fisichella, op. cit, p. 197). Il “pensiero debole” è una delle forme di irrazionalismo che minacciano la vita intellettuale dei cristiani, riducendola a mero “fideismo”. Giovanni Paolo II ci ha avvertiti che una presentazione del cristianesimo di stampo fideistico «ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione» (Fides et ratio, 14 settembre 1998, § 48).
È vero che l’uomo di oggi, nell’Occidente secolarizzato, si trova dinanzi allo spettacolo di una civiltà costruita sulla fuga da Dio: una civiltà nella quale però il processo di secolarizzazione è frenato dalla sempre nuova gioventù della Chiesa, che nei suoi santi – Pastori e laici – testimonia la vitalità soprannaturale del cristianesimo; una civiltà, inoltre, nella quale l’Islam si fa presente in forme spesso violente e comunque multitudinarie. Ci si trova dunque di fronte alla scelta tra la miscredenza e la religione; poi, nel caso che si scelga giustamente di professare una religione (perché l’ateismo è irrazionale, e il senso comune rende tutti gli uomini intimamente convinti che Dio c’è e che bisogna dargli culto), ci si trova di fronte a diverse religioni, o meglio diversi modi di esprimere il culto alla divinità. Quale scegliere? Anche qui l’unica via da percorrere è la via della ragione, che porta a capire che a una sola religione si può attribuire il titolo di vero culto. Infatti, se una è la Causa prima del mondo, se uno solo è Dio e una sola è la verità su di Lui, allora una sola è la religione vera, una sola è la dottrina rivelata che garantisce la salvezza eterna («la sola cosa necessaria», dice Gesù a Maria di Betania) e uno solo è il culto che è gradito a Dio, il quale vuole essere adorato «in spirito e verità».
Ma come fa un uomo del nostro tempo a riconoscere il vero culto fra i diversi culti dei quali viene a conoscenza? Certo, un culto religioso viene normalmente appreso attraverso strutture sociali che precedono la verifica della ragione, e non si deve sottovalutare il peso esercitato dalle tradizioni, dagli strumenti di diffusione della cultura di massa e dall’autorità morale dei genitori e degli insegnanti.
Ma anche queste sono vie della ragione, perché poi, in definitiva, tutto ciò viene a essere la materia prima di un processo di libera assunzione di responsabilità personale. La vera e matura opzione religiosa – che accetta alcune proposte e ne rifiuta delle altre – nasce nell’intimo della coscienza personale, e sopravvive solo se le ragioni di quella scelta sono di volta in volta convalidate.
Ogni uomo, prima o poi, si rende conto del fondamentale dovere di ricercare personalmente il vero culto di Dio, verificando razionalmente la validità del proprio credo o della propria miscredenza. È questo – anche se molti non ci hanno mai pensato – il contenuto del primo comandamento del Decalogo, che esprime innanzitutto la legge naturale, quella che Dio ha impresso nella coscienza di ogni uomo. La legge naturale prescrive che si riconosca Dio come creatore e come Padre, come legislatore e giudice, tributandogli il giusto culto. E ciò comporta il discernimento della vera religione.
Ora, il cristianesimo si presenta appunto come la vera religione: non solo una vera religione (nel senso che realizza l’essenza della religione) ma proprio la vera religione, l’unica che Dio abbia rivelato come parte integrante del suo piano di salvezza. Il cristiano deve rendersi conto che il cristianesimo, rispetto alla legge naturale prescritta dal Decalogo, è una religione sublimante, mentre tutte le altre religioni risultano deformanti, sia pure in diversa misura. Nelle altre religioni la ragione è in grado di rilevare qualche sostanziale contraddizione con l’essenza della religione, e pertanto con la legge naturale: è il caso di talune erronee concezioni di Dio (politeismo, panteismo), o del manifesto disconoscimento della pari dignità di tutti i figli di Dio (discriminazioni tra gli uomini a motivo della razza, dell’etnia, del sesso, del censo), o dell’identificazione del potere religioso con il potere politico, o dell’uso della violenza per la propria espansione territoriale. Nessuna contraddizione si può rilevare invece nella religione rivelata, che anzi sublima ogni dettame della coscienza umana, perfeziona ogni qualità della natura umana e infine la eleva alla partecipazione della stessa natura divina. L’evidenza di ciò la si ritrova innanzitutto nella dottrina cristiana, che ogni fedele dovrebbe conoscere adeguatamente (per questo Giovanni Paolo II e il suo successore Benedetto XVI hanno dato tanta importanza allo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica). Ma questo è solo il primo passo; poi occorre arrivare alla certezza che tale sublime religione è davvero rivelata da Dio, e che è l’unica a essere rivelata in modo definito e direttamente da Dio stesso, attraverso l’incarnazione del Figlio suo. Questo è così importante che Dio ha voluto – come insegna il concilio Vaticano I – aiutare la nostra fede non solo con le «mozioni interiori dello Spirito Santo», ma anche con «prove e segni esterni» capaci di fondare una conoscenza oggettiva e comunicabile. I procedimenti della grazia che opera nel segreto dei cuori non sono visibili; lo sono invece i segni esteriori, e su di essi può e deve pronunciarsi la ragione, proprio per consentire a Dio di attuare i suoi disegni di salvezza mediante il Vangelo. Contro la deriva fideistica, è necessario ribadire la razionalità dell’atto di fede (cfr Antonio Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 20052). Ciò significa che l’uomo deve rispondere alla rivelazione divina esercitando la funzione critica della sua ragione, ossia verificando di persona, attraverso i segni e le prove fornite da Dio stesso, la credibilità della testimonianza (la sua non-contraddittorietà, alla luce delle leggi metafisiche e logiche), e prima ancora la credibilità del testimone. Nella Scrittura questo contesto razionale è costantemente enunciato: si pensi a come l’apostolo Paolo si presenta a coloro dai quali si aspetta una risposta di fede: «In mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli» (2 Cor 12, 12).
Sempre in riferimento alla testimonianza degli Apostoli, la Scrittura attribuisce alla grazia divina la possibilità di “confermare la testimonianza” con segni esterni di credibilità che prolungano nel tempo la manifestazione del divino operata da Cristo stesso con i suoi miracoli: «[La salvezza di Dio], dopo essere stata promulgata all’inizio dal Signore, è stata confermata in mezzo a noi da quelli che l’avevano udita, mentre Dio convalidava la loro testimonianza con segni e prodigi e miracoli di ogni genere e doni dello Spirito santo, distribuiti secondo la sua volontà» (Eb 2, 4). Ecco dunque quelli che tecnicamente si chiamano “motivi di credibilità” e che motivano la certezza di essere proprio di fronte a una rivelazione divina, proposta da un uomo che parla in nome di Dio (il “profeta”) o addirittura da Dio stesso fatto uomo (il “Verbo incarnato”). I “motivi di credibilità” non hanno carattere metafisico, bensì storico-empirico; ma determinati eventi storici possono servire come prova della divinità del cristianesimo solo se interpretati alla luce dei princìpi metafisici, ossia in definitiva alla luce dei “præambula fidei”. Ciò riguarda la credibilità dei profeti dell’Antico Testamento, poi le prove della divinità di Gesù, e infine i segni della presenza viva di Gesù nella storia (indefettibilità e santità della Chiesa); infatti, anche se tali segni sono sperimentati empiricamente nelle vicende storiche, essi sono indizi della presenza di Dio proprio perché presuppongono la certezza che ci sia un Dio creatore, il solo che possa santificare gli uomini e il solo che possa inoltre operare miracoli, cioè interventi di carattere creativo.
LA VERA RELIGIONE
«L’umanità è “di fatto” religiosa perchè ogni uomo, con la sua intelligenza, intuisce di dipendere totalmente da un Altro che sta all’origine di tutto ciò che esiste.
Ogni uomo infatti può, riflettendo su se stesso e sull’universo che lo circonda, conoscere con certezza l’esistenza di questo “Altro”, di Dio, ed anche qualcosa delle sue perfezioni infinite».
(Jean-Marie de la Croix, Le religioni e la Religione, Mimep-Docete, Pessano 1990, p. 4).
Dossier: La vera religione
IL TIMONE – N. 46 – ANNO VII – Settembre/Ottobre 2005 – pag. 36 – 38