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13.12.2024

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La vita è combattimento
31 Gennaio 2014

La vita è combattimento

 

 

Creazione, peccato e redenzione: la Signoria di Cristo e il cattivo uso della libertà. La storia come combattimento, soprattutto spirituale. La salvezza è la meta

 

La Bibbia si presenta a noi come un libro di storia, anche se certamente non di una storia comune, umana, come la può fare l’uomo. Per convincersene basta constatare un fatto evidente: il racconto biblico incomincia dall’inizio assoluto e termina con la fine assoluta. Nessuna storia umana può cimentarsi con tali eventi: l’uno perché è troppo lontano nel tempo e non ci sono, né ci possono essere, documenti umani che lo descrivono, l’altro perché non si è ancora prodotto.
Lo scopo di questa storia non è quello di informarci nel dettaglio di “come sono andate le cose”, quanto quello di dirci con certezza qual è il senso della grande storia dell’umanità e del mondo, all’interno della quale si situa anche la nostra piccola storia.

La creazione e il serpente
La storia biblica incomincia con il racconto della creazione del mondo e dell’uomo (Gen 1 e 2) in cui sottolinea con vigore che tutto ciò che Dio ha creato era buono: per sette volte – e la Bibbia usa anche con frequenza il linguaggio simbolico dei numeri – è scritto che Dio constata che ciò che ha fatto è «cosa buona» (Gen 1,4.10.12.18.21.25.31). Da dove viene allora il male che pure constatiamo con dolore in noi e attorno a noi? Anche qui la storia biblica va ben oltre le possibilità della storia umana, raccontandoci l’inizio “assoluto” del male nel capitolo terzo. Il male nasce da un uso cattivo della libertà umana, da un peccato “originale”. Originale perché è il primo nella storia e originale perché rimane il modello di ogni peccato. Un peccato di disobbedienza a Dio, di mancanza di fede nella sua parola e dunque di orgoglio. Questo peccato, però, se si situa all’inizio della storia umana, non è il primo in assoluto della storia del mondo, perché l’uomo non lo “inventa”, ma – per così dire – lo “trova”. C’è infatti un essere misterioso, il serpente, la cui identità ci sarà svelata con assoluta ed esplicita chiarezza solo alla fine della storia biblica (cfr. Ap 12,9), che glielo suggerisce. Lui è allora il vero peccatore fin dal principio (cfr. 1Gv 3,8).

Una lotta drammatica
D’ora in poi la storia sarà segnata da questo evento tragico ed immane, ma l’uomo non sarà lasciato a se stesso: Dio promette che ci sarà una lotta terribile che attraverserà la storia tra le forze del male e quelle del bene e si concluderà con la definitiva sconfitta del maligno. È sorprendente che il primo annuncio della salvezza (la Bibbia è la storia di questa salvezza) sia l’annuncio di una lotta, di una guerra: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15). Si tratta di una lotta senza quartiere, perché il termine ebraico tradotto con “inimicizia” indica un’ostilità radicale, uno scontro all’ultimo sangue. Una lotta drammatica, che comporta sofferenze e ferite da entrambe le parti: «tu le insidierai il calcagno». Una lotta che avrà per protagonista qualcuno «nato da donna» (Gal 4,4) – «la sua stirpe» – e, inevitabilmente, anche questa stessa “Donna” che non fatichiamo ad identificare con Maria, madre di Gesù e anche con la Chiesa (cfr. Gen 3,15; Gal 4,4; Gv 2,4; 19,26; Ap 12,1-6).
Non ci meravigliamo più allora che tra le immagini che la Bibbia usa con più frequenza ci sia proprio quella guerresca. Tutta la vita dell’uomo è da intendersi come un combattimento: «L’uomo non compie forse un servizio militare (tale è il senso letterale del termine tsaba’, da cui anche l’espressione Yahweh tseba’ot “Signore degli eserciti”) sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? » (Gb 7,1).
Sarà però san Paolo ad usare con predilezione questa immagine. Al suo fedele discepolo Timoteo non teme di raccomandare un coraggio ed un piglio “militare”: «Questo è l’ordine che ti do, figlio mio Timòteo, in accordo con le profezie già fatte su di te, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia» (1Tm 1,18); «Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato» (2Tm 2, 3-4).
Ma è soprattutto nella lettera agli Efesini che l’apostolo si dilunga nella metafora, entrando anche nei particolari dell’armatura romana del tempo: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6,11-17).
Anche la vita di Gesù così come è raccontata dai Vangeli non è però estranea al linguaggio militare. In fondo, tutta la sua esistenza è una grandiosa e vittoriosa lotta contro l’insieme delle forze ostili al Regno di Dio, dalle tentazioni nel deserto (Mt 4,2- 11) fino all’espulsione di Satana dal mondo. «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino» (Lc 11,21-22). La sua lotta è veramente all’ultimo sangue, infatti gli costerà la vita, ma sarà proprio per mezzo della sua morte, inflitta a lui innocente dall’ingiusta violenza del mondo, che il principe di questo mondo sarà gettato fuori (cfr. Gv 12,31).

Una guerra per la pace
Lo scopo di questa lotta non è la sopraffazione del nemico e l’orgoglio del dominio e della supremazia, ma la pace. Il tema della guerra spirituale sarà ripreso da innumerevoli autori nella storia del cristianesimo, da Clemente Alessandrino a sant’Agostino, da sant’Ignazio di Loyola a Lorenzo Scupoli. Proprio sant’Ignazio, nella famosa contemplazione dei Due Stendardi, pone sulle labbra di Gesù «Re eterno» questo proposito: «È mia volontà piena di giustizia conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, e così entrare nella gloria del Padre mio. Pertanto, chi vuol venire con me deve faticare con me, perché seguendomi nella fatica, mi segua poi anche nella gloria» (Esercizi spirituali, n. 95). Che cosa può significare «conquistare i nemici» se non far sì che i nemici smettano di esserlo? Cioè divengano amici? Lo scopo sarà allora sì di una conquista, non però di territori, ma bensì di cuori.
Il carattere di questa lotta non è carnale, ma spirituale: «La nostra battaglia […] non è contro la carne e il sangue»; i veri nemici non sono mai gli uomini, che sono in fondo sempre fratelli, ma il vero nemico dell’uomo è Satana con i suoi accoliti: «i Principati e le Potenze, […] i dominatori di questo mondo tenebroso, […] gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti».
Oggi il richiamo a queste virtù virili (che riguarda anche le donne, diceva infatti alle sue consorelle santa Teresa d’Avila: siate uomini!) risulta quanto mai opportuno. Commentando le parole di san Giovanni: «questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4), ammoniva già nel 1967 Paolo VI: «La parola vittoria è relativa all’idea d’un combattimento, che sembra investire sia la condizione, sia la durata della nostra presente esistenza; un’idea punto piacevole all’uomo moderno, che rivolge ideali, desideri, attività a togliere dalla concezione della vita e dal pratico suo svolgimento ogni disturbo, ogni contrasto, ogni presa di posizione forte e militante. La vita comoda, la vita libera, la vita pacifica costituisce il tipo migliore di esistenza, a cui rivolgere aspirazione e ammirazione. Un edonismo fondamentale ispira la filosofia pratica d’ogni individuo. Il benessere gaudente e incurante sembra il vertice delle umane ascensioni. E anche quando si ammette come nobile e necessario lo sforzo, il coraggio, il rischio, non esclusa la lotta, una tendenza si nota, quella di eliminare il fine (se non il carattere) morale d’un’attività combattiva: si parla di morale senza peccato, si cerca di giustificare ogni sorta di azioni in sede psicologica e sociologica; non si vuole il combattimento né contro il demonio, di cui si nega l’esistenza; né contro il mondo, di cui si celebrano i valori fascinatori; né contro la carne, diventata l’idolo del piacere e della libera esperienza» (udienza del 5 aprile 1967).
Non ci stupisce allora che l’immagine con tutta la sua frequenza e concretezza scandalizzi anche oggi qualche storico cristiano di orientamento pacifista, fino ad accusare apertamente di imprudenza lo stesso san Paolo: « […] l’uso paolino delle immagini del mondo militare come modello di ispirazione per il cristiano possedeva di certo una valenza esclusivamente spirituale […]. Tuttavia quest’uso non poteva ritenersi del tutto innocente. Non soltanto perché esso creò una assuefazione all’universo militare, di norma fondato sulla violenza, ma soprattutto perché caricò di una dimensione bellicosa il cristianesimo » (Sergio Tanzarella, Introduzione a: Adolf von Harnack, Militia Christi, L’Epos, Palermo 2004, pp. 38-39).
Così come la lode della verginità e del celibato non comportano una condanna del matrimonio, anche la lode della pace e della mitezza non comportano la condanna dell’uso della forza militare quando esso è giustificato dalla difesa dei deboli e degli innocenti. Nella vita militare rimane dunque un valore che trascende il momento presente, anche l’orrore della guerra frutto del peccato, tale da essere autentica espressione di amore e dunque partecipare all’eternità di Dio: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Voglio concludere con questi bei versi, frequentemente attribuiti al grande poeta francese Charles Péguy, morto in guerra nel 1914:

Il guerriero è grande. Non perché uccide.
Ma perché muore.
O perché sa che va a morire.
E vi consente.
E non è poi cosa così facile accettare di morire.

 

 

Per saperne di più…

 

Paolo VI, «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra», udienza del 5 aprile 1967, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. V (1967), pp. 725-728.

 

 

 

 

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IL TIMONE N. 104 – ANNO XIII – Giugno 2011 – pag. 36 – 38

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