La crisi dell’abito religioso
«Scusi, lei è un prete?».
Capita alle volte che, per curiosità o per necessità, qualcuno debba accertarsi in questo modo dell’identità di un “tizio” incontrato per caso e che alcuni indizi fanno supporre essere un ministro di Dio, ma nulla esternamente lo manifesta con certezza. Sino a qualche decennio fa, quando preti, frati e suore apparivano inequivocabilmente tali, una siffatta domanda sarebbe stata assolutamente superflua. E in realtà anche oggi dovrebbe essere così, almeno stando alle norme ufficiali, ad esempio il Codice di Diritto Canonico, che prescrive: «I chierici (cioè diaconi, preti e vescovi) portino un abito ecclesiastico decoroso…» (can. 284) e «i religiosi portino l’abito dell’Istituto … quale segno della loro consacrazione…» (can. 669). Specifiche determinazioni vengono poi lasciate alle Conferenze episcopali. E per quel che riguarda casa nostra, i vescovi italiani, già all’indomani del Concilio Vaticano II, avevano stabilito norme tassative, mai ritrattate, nelle quali si prescrive che sacerdoti e religiosi indossino la veste talare o l’abito proprio del loro Ordine in tutte le funzioni del ministero e in generale nel proprio ambiente di vita, cioè nel territorio della parrocchia o della casa religiosa, nell’ambito della predicazione, dell’insegnamento e delle altre attività abituali; è consentito invece l’uso del clergyman nei viaggi e nelle attività estranee all’esercizio del ministero.
Su questa linea si è ripetutamente espressa anche la Santa Sede. Nel 1976 la Congregazione per i Vescovi inviava a tutte le Conferenze episcopali del mondo una lettera (27.01.1976) nella quale ricordava che l’autorizzazione ad un adeguamento dell’abito religioso non può in alcun modo trasformarsi in un abbandono di esso, che resta importante per tutti i consacrati indossare una divisa che esprima la loro condizione e la renda chiaramente evidente ai fedeli e a tutti gli uomini, che non si può che deplorare il disprezzo per tali valori, prevedendone le gravissime conseguenze per la disciplina religiosa e la mentalità dei fedeli. Più recentemente, la Congregazione per il Clero riaffermava che né il solo colletto bianco, né una semplice croce bastano a rendere “ecclesiastico” un abito borghese (Lettera del 10-02-1996).
Ma nonostante il moltiplicarsi di leggi e richiami, la disaffezione di tanti all’abito religioso è sotto gli occhi di tutti.
I paladini di questa politica abusiva ma tanto praticata invocano a loro difesa la necessità di essere più vicini alla gente, al cui scopo un abito specifico sarebbe d’intralcio. In realtà, è interessante notare che solo i laicisti, propugnatori della più ampia desacralizzazione della società mediante la secolarizzazione del clero e, se fosse possibile, della Chiesa stessa, hanno accolto con entusiasmo tale novità; la gran parte della gente, credente e non credente, quella che davvero vuole il sacerdote vicino, abitualmente apprezza i ministri di Dio “in divisa”.
D’altronde, è evidente che la vicinanza o meno alle persone è questione di sensibilità, di apertura di mente e di cuore, in definitiva di zelo per il bene temporale ed eterno dei fratelli, mentre il vero ostacolo contro tale vicinanza non è certo l’abito, quanto piuttosto uno stile frettoloso, l’incapacità di ascoltare, l’insofferenza per tutto ciò che esce dai propri schemi e dai propri programmi. A questo proposito restano limpide e ammonitrici le parole del papa Giovanni Paolo II: senza dubbio l’attività pastorale richiede che il sacerdote sia vicino a tutti gli uomini e ai loro problemi … ma deve essere anche ben chiaro che essa esige che si stia vicino a tutti questi problemi «da sacerdote» (cf. Lettera Novo incipiente, dell’8 aprile 1979, n.7).
Ma non è da escludere che la nuova prassi sia non solo il frutto di un malinteso senso di vicinanza, ma, ben più gravemente, il sintomo di una crisi di identità dei consacrati, come più volte i recenti Pontefici hanno lamentato: in questo caso non si apprezzerebbe più il valore di una distinzione esteriore tra consacrati e fedeli laici, perché non se ne apprezzerebbe più fino in fondo la distinzione teologica. Paolo VI, ad esempio, lamenta che ci si sia spinti troppo oltre nell’intenzione, per sé lodevole, d’inserire il sacerdote nella compagine sociale, arrivando a secolarizzare il suo modo di vivere, di pensare, e di conseguenza il suo abito, con il grave rischio di svigorire la sua vocazione e offuscare gli impegni sacri assunti davanti a Dio e alla Chiesa (Udienza generale del 17.09.1969). È divenuto quindi decisivo ribadire ciò che di per sé è scontato, cioè che il sacerdote è ministro di Cristo e della Chiesa, contro la tendenza ormai tanto diffusa a ridurlo ad un uomo come gli altri, con un abito come quello degli altri, quale pericoloso preludio ad uno stile di vita come quello degli altri (Paolo VI, allocuzione al clero del 01.03.1973). Ugualmente Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato ricorda ai ministri sacri che l’identità sacerdotale deve essere scrupolosamente difesa dall’insidiosa tentazione di laicizzare il proprio modo di vivere, di agire e di vestire (cf Lettera Novo incipiente del 1979 e allocuzione al clero del 09.11.1978).
Il valore dell’abito religioso
Dunque, l’importanza di un abito distintivo per i consacrati resta confermata dalla voce dell’Autorità ecclesiastica e da quella del buon senso.
E in effetti l’abito è portatore di un triplice valore.
Ha anzitutto un valore psicologico: indossare la divisa di un determinato corpo sociale è memoria permanente a sé e agli altri dei motivi della propria scelta e degli impegni connessi ad essa, rafforzando così il senso di appartenenza a quel corpo.
Ha poi un valore sociologico: significa rinunciare alla manifestazione esteriore della propria singolarità per identificarsi con una categoria, nella quale si spicca per “ciò” che si è, più che per “chi” si è; contemporaneamente costituisce l’affermazione pubblica della propria condizione e quindi l’esplicita dichiarazione del proprio appartenere a Cristo e alla Chiesa cattolica.
Ma soprattutto ha un valore teologico: è partecipazione della corporeità alla dedicazione a Dio di tutta la persona; è manifestazione di quell’elezione divina per cui un uomo viene scelto e separato dagli altri uomini, per essere costituito a bene degli altri, nelle cose che riguardano Dio; è segno di quella trasformazione per cui il consacrato si spoglia dell’uomo vecchio e mondano e si riveste di Cristo, uomo nuovo, creato secondo Dio nella santità.
La nostra società così secolarizzata, nella quale i segni del soprannaturale si sono tanto rarefatti, ha più che mai bisogno di “vedere” gli uomini del sacro. Non vogliano i servi di Dio e della Chiesa deludere questa importante aspettativa. E se resta vero che “l’abito non fa il monaco”, qualcuno opportunamente ebbe a dire che, però, “un buon monaco ama il suo abito”.
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