Sono forse troppe le metafore che descrivono l’altare cristiano, tante da nascondere in parte la sua natura materiale, rendendola sovente invisibile al di sotto dei veli di simboli che l’avvolgono a guisa delle tovaglie e del paliotto che ne coprono le superfici. La forza simbolica di questa parte necessaria e indispensabile del tempio cristiano è tale e tanta che anche la letteratura ad essa dedicata ha abitualmente concentrato la sua attenzione solo sugli aspetti simbolici dell’elemento e sui suoi significati teologici, e anche così variando fra interpretazioni divergenti e a volte alternative, mentre ha troppo spesso dimenticato di commentare gli aspetti formali e più visibili degli altari.
Proprio questa pregnanza simbolica, del resto inevitabile e spesso necessaria, è forse individuabile tra le possibili cause della degenerazione di questo elemento nella progettazione architettonica e artistica contemporanea, quasi si manifestasse una paradossale incapacità dei nostri artisti nel realizzare un oggetto che pure sarebbe per sua natura di una forma così semplice ed ovvia. E infatti alla radice di quella semplicità formale sta proprio la natura eminentemente funzionale dell’altare, dimenticata a vantaggio di un numero di immagini allegoriche che rendono i nuovi altari simili a mille astrazioni e fantasie fuorché a degli altari.
Ma allora, che cos’è veramente un altare?
L’altare è un oggetto che serve da supporto alla pratica di un sacrificio rituale espiatorio o propiziatorio del favore di una divinità, preferibilmente celebrato su un monte o su un’altura. Questo erano gli altari dell’antichità precristiana, così quelli dei paganesimi successivi e contemporanei, e così pure erano gli altari nominati nel Vecchio Testamento, da quello sul quale Abele certamente bruciava il suo puro sacrificio a quello del Tempio che a Salomone fu comandato di costruire a Gerusalemme. È anche da questi altari che l’altare cristiano eredita forme e materiali, adattandoli appena del necessario alle esigenze del suo sacrificio incruento, che non ha certamente perso il suo valore espiatorio e propiziatorio che già ispirava i precedenti, come correttamente insegna la dottrina cattolica.
E così, per le mutate necessità che rendevano inutile la larga superficie su cui le vittime immolate erano bruciate a Gerusalemme e per la mediazione delle più piccole are romane, si passò dal grande altare quadrato salomonico a un altare quadrangolare più ridotto, ma largo abbastanza da potervi appoggiare i vasi sacri, per arrivare in breve a un altare lungo a sufficienza da permettere l’inumazione al suo interno di un corpo di un santo, di un martire che aveva già immolato la sua vita al servizio di Dio. Abitualmente, il corpo del santo fu sostituito da una semplice sua reliquia, senza per questo che l’altare perdesse il suo doppio aspetto di ara e di sarcofago che aveva intanto acquisito e che rafforzava il suo legame con la funzione sacrificale. A sostituzione dell’altura naturale o delle lunghe gradinate che a volte precedevano l’ingresso ai templi, si preferì innalzare gli altari su pochi gradini memori tuttavia della predilezione dei luoghi elevati per celebrare il sacrificio e specialmente del Monte Calvario, ove fu immolato il Dio dei cristiani.
Sulla base della continuità semantica e formale che il Cristianesimo manifesta con le tradizioni precedenti, e che appunto si articola intorno al concetto di sacrificio che l’altare rende possibile e rappresenta fisicamente, ogni chiesa cattolica può a buon diritto essere chiamata “tempio”, così come la letteratura ha fatto per secoli. A ben vedere, la caduta in disuso di quest’ultima definizione riferita alle chiese cattoliche e la parallela e improvvisa afasia formale degli altari nuovamente realizzati, furono solo una conseguenza dell’oblio del senso sacrificale della liturgia eucaristica: da quando questa trascuratezza si è insinuata nella Chiesa abbiamo trovato tavoli e sculture al posto di altari in certe chiese che per la prima volta nella nostra storia non sono più templi.
IL TIMONE N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 47
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