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L’arte e l’Incarnazione
31 Gennaio 2014

L’arte e l’Incarnazione



La via pulchritudinis, la via della bellezza, richiamata da papa Benedetto XVI come strada privilegiata per raggiungere l’uomo contemporaneo. Che non ascolta ragionamenti complessi e non distingue più il bene dal male. Intervista a suor Gloria Riva




È la suora della bellezza: non per niente porta il nome di Gloria… Maria Gloria Riva, per l’esattezza. Madre Riva è monaca di clausura e in convento ha portato – fin dal suo ingresso a Monza nel 1984 – una grande passione e competenza per l’arte. Negli ultimi anni ha pubblicato vari studi sull’arte sacra e anche un dvd sul Cenacolo di Leonardo, ma soprattutto ha fondato vicino a Rimini una nuova comunità monastica che tenta di unire l’adorazione perpetua e la passione per la bellezza.

Madre, ci sono religionidove la rappresentazione di Dio è assente, anzi vietata, per indicare il sommo rispetto dovuto all’Essere spirituale per eccellenza. Invece per il cristianesimo (a parte alcune eccezioni, ad esempio nel periodo della “lotta iconoclasta”) non è così, al contrario. Come mai?
«Proprio così. La fioritura dell’iconografia sacra e religiosa all’interno della fede cristiana è un fenomeno unico che, da solo, annuncia il grande mistero dell’incarnazione. Il fatto che proprio all’interno di un movimento nato da ebrei (persone – quindi – educate alla diffidenza assoluta nei confronti di qualunque tipo di rappresentazione visiva della divinità) si sia sviluppata un’arte religiosa dice come l’arte cristiana nasca da un’esperienza che l’apostolo Giovanni sintetizza così: la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza. L’arte, all’interno della Chiesa, nasce quindi come sacramentale, cioè come veicolo della grazia. Del resto un testimone assoluto della Risurrezione, mistero cardine della fede cristiana, è il Sacro Lino che ha avvolto il corpo di Cristo, oggi riconosciuto nella Sindone di Torino. Nella Sindone – come nel mandylion della Veronica, singolare figura femminile che la tradizione ha da sempre onorato – è nascosta l’origine dell’iconografia cristiana: l’immagine acheropita, cioè “non fatta da mano d’uomo”. Se Dio ha scelto di rimanere con noi anche attraverso la testimonianza diretta della sua immagine, segno indelebile e misterioso della sua incarnazione, perché proibire all’uomo di divulgarne delle copie al fine di aiutare il fedele a vivere sotto lo sguardo di una presenza che benedice e salva la vita?».

Appunto: «Il Verbo si è fatto carne… e noi abbiamo visto la sua gloria», come lei stessa ricorda. Sembrerebbe che la vista, cioè il senso principale attraverso il quale percepiamo la bellezza, sia fondamentale per la fede fin dalle origini del cristianesimo. Esiste dunque un legame quasi “teologico” tra l’incarnazione e l’arte?
«Evidentemente sì. Se guardassimo dall’alto tutta la storia della salvezza, da Abramo fino all’ultimo degli apostoli, vedremmo sintetizzata l’intera pedagogia divina in due verbi: ascoltare e vedere. Se il verbo principale del Primo Testamento è “ascoltare” (tale da diventare un comando: shemà Israel!, “Ascolta Israele”), e conseguentemente l’organo più importante è l’orecchio, nel Nuovo Testamento il verbo della fede è “vedere” e l’organo più importante è l’occhio. Il Vangelo di Giovanni comincia con un imperativo da parte di Gesù ai primi discepoli: “Venite e vedete!” E termina davanti alla tomba vuota del Cristo con la testimonianza del discepolo amato il quale “vide e credette”. Testimone chiave di questo fondamentale passaggio (quasi davvero una Pasqua) è la Vergine Maria. I Padri della Chiesa affermano che lei generò Cristo più attraverso l’orecchio che il grembo, perché in Maria l’ascolto (lo shemà Israel!) fu perfetto. Fu proprio nel suo grembo che la Parola si è fatta carne e, quindi, l’ascolto è diventato visione. Qui, in Maria quale Madre di Dio, sta il fondamento di tutta la teologia cristiana».

E tuttavia, analizzando la storia della pittura e della scultura, l’arte sacra sembra anche percorsa da una certa paura della “carne”, dei corpi o della materia. Sembra quasi che la massima purezza consista nell’astrazione, nel distacco dalla terra. Come mai questa contraddizione?
«L’arte sacra per eccellenza, quella generata dalla fede ortodossa, è anzitutto rivelazione. Non desiderio umano di rappresentare l’invisibile, ma stupore di fronte a Dio che si rivela. Per questo le icone si “scrivono”, perché sono trattati di teologia espressi mediante il segno grafico. Da qui la tendenza all’astrazione e alla distanza dalla reale anatomia dell’uomo. Nella sensibilità occidentale invece si fa strada progressivamente il desiderio di esprimere il mistero dell’Incarnazione con la veridicità delle forme. Da Giotto fino a Michelangelo (per rimanere in ambito italiano) si sviluppa un’espressione artistica che vuole rileggere il mistero di Cristo dentro la realtà concreta delle generazioni. Sarà soprattutto con l’arte moderna e contemporanea (dagli impressionisti fino ai contemporanei appunto) che ritornerà la tendenza ad astrarre, non più però per amore verso un mistero rivelato, bensì per lo stravolgimento della forma voluta dal Creatore».

Ripetendo una frase fin troppo celebre, si dice di frequente che «la bellezza salverà il mondo». Eppure spesso le immagini che chiamiamo “sacre” e che vengono proposte alla venerazione popolare sono di scarsa qualità artistica, sdolcinate, dozzinali, insomma brutte. Come mai?

«Rivelare agli altri la bellezza delle cose contemplate: così diceva san Tommaso. Da oltre un secolo, ormai (ma si potrebbe tornare ancora più indietro), l’arte sacra e l’arte religiosa in generale non offrono più cose esemplari. Il difetto sta proprio nel punto di partenza così bene illustrato da Tommaso d’Aquino: la contemplazione. Oggi l’artista parte troppo spesso da sé per realizzare o riprodurre opere, mentre si dovrebbe sempre iniziare dall’ispirazione, come dono che nasce dal silenzio e dalla preghiera. Ci siamo inoltre perdutamente allontanati da quel mondo immaginoso e simbolico che ha reso fertile l’intelligenza della fede nel Medioevo. Il fascino della ragione che indaga e che rende l’uomo unico rispetto alle altre creature ha fatto sì che si scadesse in un razionalismo esasperato dove l’uomo, insuperbendosi, si è trovato disperso – come canta il Magnificat – “nei pensieri del suo stesso cuore”. Se poi un tempo si puntava al “bello”, gratuito e fine a se stesso, oggi si preferisce l’utile, anche economicamente parlando, che si trasforma spesso in commerciale ».

Quali sono invece, a suo parere, le opere d’arte che più possono aiutarci a comprendere il mistero dell’Incarnazione?
«Tutte quelle che nascono dentro un contesto di fede vissuta o desiderata. Non necessariamente l’artista deve avere una fede profonda, ma necessariamente deve desiderare di averla. Arte è quella del Beato Angelico, ma arte è anche quella del Caravaggio. L’arte di fra’ Giovanni da Fiesole era supportata dalla mistica della contemplazione, esattamente come voleva san Tommaso, mentre l’arte di Michelangelo Merisi era densa di interrogativi. Anche Caravaggio partiva però dalla contemplazione, contemplava nell’oscurità della sua vita, spesso sregolata, il balenare della luce del Redentore che dava una risposta alle turbolenze del suo cuore.
I due grandi geni del ’500, Michelangelo e Leonardo, tracciano due correnti che ritroviamo oggi portate al massimo della loro esasperazione stilistica. Una che guarda alla forma e una che si riferisce alla luce. Dagli impressionisti in poi, fino a Kandinskij, il modo soggettivo dell’artista di interpretare la luce l’ha fatta da padrone, mentre dal cubismo di Picasso fino all’arte intellettuale contemporanea abbiamo lo stravolgimento della forma, dove l’uomo stesso si erge a creatore. Un’arte che rispetta luce e forma nella novità di uno sguardo educato dalla grande tradizione della Chiesa è ancora oggi un’arte che può educare al mistero dell’incarnazione».

Dossier: IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE

IL TIMONE N. 111 – ANNO XIV – Mrzo 2012 – pag. 42 – 43

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