Genitori preoccupati di trasmettere il dono della fede ai loro bambini. Dopo un articolo pubblicato in questa rubrica qualche mese orsono, hanno scritto all’autrice le loro testimonianze. Eccone alcune…
Forse qualcuno ricorderà che qualche tempo fa mi sono occupata del rapporto tra bambini e fede e, dunque, anche della loro educazione in questo campo. E lo facevo cercando anzitutto di capire che cosa ne pensasse e dicesse Gesù stesso al riguardo. Quel Gesù il quale, non solo ha dimostrato, tra la meraviglia dei discepoli che credevano ne fosse disturbato, di volersi circondare di piccoli, ma li ha addirittura additati come l’esempio da seguire per «entrare nel Regno dei Cieli», cioè per stabilire il giusto rapporto con Lui.
Poiché tuttavia ero e sono un’abusiva in questo campo, dal momento che non essendo né mamma né nonna e neanche insegnante, ho avuto al proposito solo la mia esperienza di bambina, chiedevo ai lettori di intervenire per aiutarmi ad arricchire nell’incontro le mie conoscenze al riguardo. Con gioia ho constatato l’attenzione e la premura di molti che mi hanno scritto per condividere con me il loro vissuto di genitori e, più in generale, di credenti. Ed è con altrettanta gioia che oggi vi propongo una sintesi di questi scambi. Senza alcuna pretesa, evidentemente. Solo alcuni flash che evidenziano come il problema sia sentito. E che pongono in luce come, proprio da questo contatto con i bambini e dalla ne sorprese.
Prima però, vorrei riferire di alcune interessanti osservazioni che mi sono state fatte a proposito della recettività spirituale dei bambini. Per esempio, quella di chi mi ha ricordato che è il Cielo stesso a riconfermarci di tanto in tanto la grande capacità dei bambini di entrare in comunione con Dio, capacità della quale Gesù ci ha parlato. Ne è un esempio il fatto che Maria, sua Madre, abbia spesso scelto dei piccoli come veggenti delle sue apparizioni. E questo non solo come semplici “messaggeri” destinati a riferire quanto da lei detto. Ma addirittura coinvolgendoli in modo diretto nel messaggio stesso, quasi che potessero, meglio dei grandi, proprio per la loro piccolezza e semplicità, ascoltarla e recepire quanto voleva dire. Fatima ne è forse l’esempio migliore. Al momento delle prime apparizioni, quelle dell’Angelo, Lucia infatti ha nove anni, Francesco otto, Giacinta addirittura solo sei. Il 13 maggio del 1917, quando appare loro per la prima volta Maria, essi contano solo un anno in più. Eppure, la Vergine non userà certo degli eufemismi buonisti per rivolgersi loro. Anzi, li porterà addirittura bruscamente nel cuore stesso del Mistero cristiano: «Volete offrirvi a Dio e sopportare tutte le sofferenze che vorrà inviarvi come atto di riparazione dei peccati dai quali è offeso e come supplica per la conversione dei peccatori?». E i bambini, a loro volta, non fuggono spaventati davanti a una richiesta nella quale è implicata la più alta teologia, ma rispondono con semplicità: «Sì, lo vogliamo». Impressionante se ci pensiamo bene; anche se l’eccezionalità della situazione fa pensare a fiumi di Grazia riversati su queste piccole creature, chiamate a una santità che la Chiesa stessa riconoscerà ufficialmente.
Ma i pastorelli di Fatima non sono i soli “santi bambini”. Già la conoscevo, ma qualcuno tra i lettori mi ha rammentato, per esempio, la storia di una piccola romana, Antonietta Meo, detta Nennolina, morta nel luglio del 1937 a soli sei anni e mezzo per un tumore osseo. Fin da subito, la sua tomba al Verano era stata riempita non solo di fiori ma anche di bigliettini di ringraziamento per grazia ricevuta. Il processo diocesano per il riconoscimento delle virtù si era aperto già nel 1942, mentre nel 1982 veniva dichiarata serva di Dio. Nel 2007 Papa Benedetto XVI ne riconosceva le virtù eroiche in attesa di proclamarla beata. Le sue “letterine” a Gesù e a Maria – dettate prima ai familiari e poi di suo pugno, non appena aveva imparato a scrivere – hanno colpito molto gli studiosi che, pur nella semplicità della scrittura propria della sua età, vi hanno ritrovato una stupefacente sapienza spirituale, segno certo della presenza nella sua piccola anima dello Spirito Santo e dei suoi sette doni.
Del resto, anche al di fuori di questi esempi eccezionali, molti sono coloro che hanno voluto confidarmi il ricordo della loro prima comunione: un momento mistico che non hanno mai dimenticato. Così come non hanno dimenticato quel catechismo che li aveva preparati, magari assopitosi per anni in fondo al cuore e poi un giorno, lungo i difficili cammini della vita, riscoperto e ritrovato. Io stessa, per quel che vale, ricordo assai bene il giorno della mia prima comunione che fu anche quello della cresima, ricevute entrambe a sette anni, come un momento davvero sacro. Così come ricordo molto bene anche la prima confessione, fatta il giorno avanti, che mi procurò una sensazione di felicità intensa e mai provata prima. Ma quelle che mi sono giunte più numerose sono state le testimonianze di genitori, soprattutto mamme, oggi impegnate in quello che ho capito essere davvero il difficile, anche se affascinante, lavoro di introdurre alla fede i loro figli.
Difficile perché, me ne sono resa conto leggendo le loro lettere, ormai da qualche decennio i genitori cristiani, cattolici in particolare, si trovano spesso nella strana situazione di dover insegnare ai figli quello che anche loro hanno poco e male imparato. Si tratta infatti di generazioni cresciute in quel postconcilio un po’ confuso in cui la messa in discussione di tutto aveva investito anche il campo dell’educazione infantile alla fede. Oggi, tuttavia, che i guasti di questo vuoto cominciano a farsi evidenti e innegabili, gli adulti capiscono di dover prendere in mano i loro figli per ricondurli ai cosiddetti “valori” e tra questi al più grande, e cioè a Dio, su cui si fondano tutti gli altri. Così, essi stanno faticosamente cercando di trovare i modi adeguati per aiutare l’incontro con Dio di bambini bombardati da moltissimi stimoli che provengono dall’ambiente esterno alla Chiesa e che spesso, anzi quasi sempre, sono in contrasto con una visione soprannaturale della vita.
Per questo, mi ha davvero commosso leggere l’impegno di molte giovani mamme. Come quella che mi scrive: «Non posso dire di aver respirato la fede sulle ginocchia di mia madre. Mi sembra una premessa doverosa perché spesso mi sono chiesta da dove provenisse quell’urgenza che sentivo dentro di passare ai miei figli, insieme al mio latte, anche quel tesoro che andavo riscoprendo giorno dopo giorno nella mia vita di moglie e di madre. Così, io che non avevo avuto esempi concreti di fede vissuta, mi sono trovata nella necessità, ma direi piuttosto nell’esigenza, di darli a loro: il segno della Croce, la benedizione ai pasti, le preghierine della sera. E anche, portarseli sempre a Messa, con paziente fatica. Per me, lo confesso, è stata insieme un’esperienza e una scuola: insegnando loro, imparavo io, dovendo spiegare, era importante che prima io capissi. E soprattutto, per testimoniare in casa dovevo prima vivere, credere, darmi le ragioni di questa fede». Oppure, un’altra mamma che spiega in questo modo il suo impegno: «Quello che mi premeva era di far capire ma, ancor prima, di far “respirare” ai miei figli la bellezza del mettere la vita nelle mani di Dio con fiducia totale. Cercare di far loro intendere che quel Vangelo che ci è stato trasmesso cambia la prospettiva di ogni giornata. Non sempre siamo o diventiamo migliori. Anzi, io avverto costantemente il mio limite, ma sono consapevole, questo sì, della direzione verso la quale posso orientare al meglio la mia vita. E, dunque, sono anche consapevole che, se ai nostri figli diamo istruzione, benessere, soldi, vestiti, il cellulare e la play station ma non diamo il nutrimento dell’anima, alla fine resterà loro ben poco».
E un’altra ancora che mi scrive confessandomi che nella sua vita la dimensione della fede era lontana. C’erano tante altre cose che la preoccupavano e che riteneva più importanti. Fino al momento in cui, più per convenzione che per convinzione, aveva iscritto il bambino al catechismo. Sulle prime era rimasta seccata del fatto che il prete e le catechiste tentassero di coinvolgere lei e il marito, dal momento che pensava di poter delegare interamente a loro questa tappa, in qualche modo inevitabile, della prima comunione. Nel giro di poco tempo, tuttavia, il suo stato d’animo era mutato. Qualcosa, infatti, l’aveva toccata: soprattutto quella Messa con i bambini, così calda e partecipata. Quell’impegno dei catechisti. Quei fanciulli nei quali all’improvviso aveva intravisto, al di là della loro vivacità, uno stato d’animo di curiosità e di attesa verso un Qualcosa che cominciò a coinvolgere anche lei. Tanto che il percorso verso la confessione e l’eucaristia del suo bambino divenne anche il suo.
A me sono parse belle testimonianze in questa Chiesa che, nell’anno della fede, cerca faticosamente di ritrovare se stessa. Storie di adulti e di bambini che si danno evangelicamente la mano, aiutandosi a vicenda in quell’avventura straordinaria che è la ricerca di Dio.
IL TIMONE N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 56 – 57
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