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14.12.2024

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L’ateismo della letteratura
31 Gennaio 2014

L’ateismo della letteratura

 

 

 

 

Un italiano su due non legge neanche un libro all’anno. Solgenicyn parla di “esaurimento della cultura”. E’ l’ateismo della letteratura, insegnato nelle scuole e incarnato da molti grandi autori del ‘900. Ma non mancano segni di speranza.

 

In Italia, dicono le statistiche, non si legge quasi più. Non leggere quasi più è la prassi diffusa: ma è nella pratica che si rivela l'uomo, il valore della sua generazione, l'anima di una società. Eppure l'editoria sembrerebbe, a guardarla da lontano, una macchina che gira a pieno ritmo: ogni anno, nel nostro Paese si pubblicano 53mila titoli, per un totale di 254 milioni di copie. Un "mercato" in buona salute? Non proprio. A confronto con altre nazioni europee siamo agli ultimi posti, persino per la tiratura media di ciascun libro, che è dimezzata in meno di due decenni; ultimo dato sconfortante, il 47,1% degli italiani non legge neanche un libro all'anno.
Come mai le fonti si sono inaridite? Il nobel Aleksandr Solgenicyn, tre anni fa, parlava senza mezzi termini di esaurimento della cultura, e non si riferiva soltanto alla Russia. Per quanto sia possibile risalire alle cause del fenomeno, è chiaro che l'origine del problema stia nell'atteggiamento (pratico) che chiamerei l'ateismo della letteratura. Attenzione, non si tratta dell'ateismo nella letteratura. Ciò con cui abbiamo a che fare è un male che si camuffa di spiritualità, di affiati mistici, di filosofismi; oppure, di noncurante indifferenza ai problemi primi e ultimi. Se lo chiamassimo "gnosi" saremmo molto prossimi al cuore della questione. Di fatto, è un vizio antichissimo che si propone di volta in volta sulla scena della storia, e impone agli uomini una risposta vigorosa, una reazione che costa grandi sforzi senza apparenti risultati e impone sacrifici spesso dolorosi. Oggi, come all'epoca dell'alessandrinismo, cioè della dissoluzione del mondo greco, fronteggiamo questa emorragia che colpisce l'intelletto, l'animo, i corpi e i cuori.
L'ateismo della letteratura viene infatti insegnato inconsapevolmente nella maggioranza delle scuole, filtra inconsciamente in tanti corsi universitari, è oramai sottinteso alle logiche con cui si promuovono i "nuovi autori" e i bestseller. Il risultato è un caos infertile, un brodo infecondo di libri e messaggi.

La violenza e il mito
Dovendo dare una definizione di questo modo di fare, occorre rifarsi a un'intuizione del filosofo Augusto Del Noce (1910-1989), il quale ne Il problema dell'ateismo sottolineava come la filosofia si fosse trasformata in azione politica, nel Novecento: così, la prassi politica sostituiva la speculazione filosofica eliminandola fisicamente, ossia non lasciandole più, in un modo o nell'altro, alcuno spazio. Non essendo più ammissibile la ricerca della verità, con un atto già praticato altre volte nella modernità, avvenne un vero e proprio "genocidio" nel campo delle idee. Un aborto, una selezione genetica. E benché molti ritenessero l'uno e l'altra segni di progresso e di laicità, si trattò, com'è evidente, di un gesto di violenza: negare la verità significa negare un posto a Dio. Del resto, nella vita c'è qualcosa di più violento che non lasciare posto a qualcosa o a qualcuno?
Come nella filosofia e nella giurisprudenza, così nella letteratura: da allora, per lo scrittore, la ricerca della verità non è ammissibile perché la verità non esiste. Questo il messaggio dei "maestri" del Novecento, la lettura consigliata agli studenti degli ultimi decenni (Sartre, Moravia, Calvino , Eco, Sepùlveda e altri): cioè la violenza predicata, seminata, coltivata, alimentata; a noi tocca il tempo di mietitura di questo disastroso raccolto.
Ma nel cuore dell'uomo resiste la voglia di ricominciare a parlare con il Padre, a ricercare con tutte le forze il regno del significato, il luogo della giustizia e del bene. Paradossalmente una via d'uscita è ora offerta dal percorso verso le origini; cosa che in letteratura avviene confrontandosi di nuovo con le situazioni decisive del mito greco. Lì, presso le sorgenti della coscienza occidentale non ancora illuminata dalla grazia della Rivelazione, è dato incrociare l'evento fatale, leggere la propria condizione nello specchio di un destino più grande; come appare in due libri intelligenti: Elettra. Variazioni sul mito (Marsilio, 2002) e Orfeo. Variazioni sul mito (Marsilio, 2004). Antologie in cui il racconto è dato nelle versioni diverse, attraverso i secoli, per mano di autori grandi (Sofocle, Virgilio, Ovidio, Hofmannsthal, Pavese) o discutibili (Rilke, Yourcenar, Cocteau). Si noterà peraltro come, nel trascorrere delle epoche, la narrazione tenda alla confusione, all'assurdo.
Ma se non riescono attraverso la parola a recuperare il "senso della nascita", il poeta e la sua società prima o poi periscono.

Il senso della nascita
La rilettura del mito greco serve se dona una chiave per impostare ex nova il problema della verità e della violenza; ma non basta. Nel mondo contemporaneo, in cui risuona l'antica tragica idea che "meglio sarebbe non esser nati", in una società "senza padre" e dunque destinata al peggio, il mito va riscritto, riveduto. Ciò che fece Giovanni Testori nelle sue trilogie teatrali: tutto un passato ri-assunto nel dramma, e che trova compimento nella conversione cristiana.
L'avvicinarsi di questo autore "maledetto" alla fede è un capitolo doloroso della letteratura europea, ma pieno di speranza. Con la sua opera scritta, egli ha attraversato le terre guaste dell'ateismo della letteratura, uscendo infine alla luce attraverso la Croce, con l'aiuto di altri cristiani, incontrati, a conferma che "chi è radicato, radica". Antidoto alla nocività dell'arte contemporanea, La maestà della vita (BUR, 1998) è una raccolta di articoli che Testori pubblicò tra gli anni settanta e ottanta sui giornali, commentando i temi del presente. Tra le pagine, spicca la conversazione con don Luigi Giussani dal titolo Il senso della nascita, che è un inno splendido e terribile dello scrittore moderno che ricomincia a stare alla presenza del Padre, a sentirsi figlio di Dio. Questo itinerario tormentato è offerto all'ateismo delle letterature contemporanee, ai loro pallidi autori perché "anche se nessuno gli dirà il nome di Cristo, Lui li guarda. Basta la sua forza per salvare loro, me, tutti. Anche tu che leggi è Lui che aspetti, è per Lui che vivi, anche se non lo sai".

IL TIMONE  N. 38 – ANNO VI – Dicembre 2004 – pag. 52 – 53

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