Una domanda che, ovviamente, rischia di sembrare quella di un presuntuoso o di un ingenuo. Eppure, proviamo a porcela, con doverosa umiltà: quali sono, per quanto possiamo scorgere, i piani del Dio cristiano sul mondo?
Davvero, come è stato creduto senza esitazione per tanti secoli, dobbiamo farci strumenti perché tutte le genti riconoscano – in modo esplicito – la verità del Vangelo, ne accettino le conseguenze sociali e morali ed entrino infine a far parte della Chiesa cattolica, riconoscendo il magistero universale del Successore di Pietro?
Questa prospettiva è stata indiscussa sino alla fine del pontificato di Pio XII.
Ma poi, non solo il Concilio ma anche la storia del mondo – che ci ha rivelato sino in fondo il suo pluralismo irriducibile – ci hanno costretti a prendere atto della realtà. A viste umane, la cristianizzazione se non addirittura la cattolicizzazione di ogni civiltà, cultura, popolo non sembra una meta raggiungibile.
Ripeto: a viste umane, dunque a meno di uno speciale intervento divino che, però, non abbiamo il diritto di pretendere.
Vi ho pensato molte volte, s’intende, ma la riflessione mi è stata risvegliata scorrendo il libro appena uscito (Si fa presto a dire Dio) di Paolo Scarpi, docente di storia delle religioni all’università di Padova. Si tratta di uno studioso che non guarda con simpatia al cristianesimo, cui applica «il dubbio e il pensiero critico» e che diffida in particolare del cattolicesimo. Sostanzialmente, un “illuminista” nel senso classico. Proprio per questo è significativo che, sin dalla premessa del libro, ribadisca il “perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce che pure, come sappiamo, era del tutto estraneo alla fede. Anche per Scarpi, che lo vogliamo o no, non possiamo sfuggire alla forma mentis dataci dalle Chiese, quella cattolica in particolare, in venti secoli di dottrina e di prassi. Scrive: «Anche gli atei più convinti hanno respirato il cristianesimo, così che nessuno in Occidente non può non dirsi culturalmente cristiano». Ma è l’Occidente che da secoli espande la sua egemonia prima anche politica e ora soprattutto intellettuale, sociale, ed economica, al mondo intero. Così che il “paradigma cristiano”, con le sue categorie che hanno la radice nel Vangelo, ha sostituito o sta sostituendo ogni altra prospettiva. Basti pensare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che hanno l’ambizione di rappresentare il mondo intero: ebbene, quel documento universale e sottoscritto dalla quasi totalità dei Paesi del mondo, ricalca la Dichiarazione della Rivoluzione francese la quale, a suo volta, deriva direttamente dall’insegnamento evangelico. Non c’è Paese dove non si sia formata e non si formi una rete di università dove sia gli oggetti dello studio che i suoi metodi provengono direttamente dal “modo di pensare” cristiano.
Per stare all’oggi, pensiamo alle due ultime ideologie egemoni in Occidente e, da lì, sparsesi nel mondo intero: il marxismo negli anni Settanta e Ottanta e poi, oggi, la Political Correctness, macro-ideologia composta a sua volta di ideologie parziali come il femminismo, l’animalismo, l’ambientalismo ecc. Ebbene, entrambe queste prospettive derivano da quella cristiana: il marxismo come giudeo-cristianesimo secolarizzato e il “politicamente corretto” come vangelo amputato.
Ma le tracce profonde cristiane sono ovunque, anche se in apparenza celate. Un esempio tra mille: mentre scrivo, sono in corso i Campionati del mondo di quel football che ha folle immense di appassionati in tutti i Continenti. Ebbene, leggo sul settimanale dei valdesi che, assieme a buona parte degli sport divenuti poi popolarissimi in ogni continente, anche il football fu inventato e diffuso da associazioni cristiane inglesi per sottrarre le classi popolari all’alcol, alle carte e all’ozio dopo il lavoro, dando loro al contempo modo di esercitare quel corpo che è dono di Dio. Si potrebbe continuare, arrivando alla constatazione che, in qualche modo, il mondo è già “cristianizzato” (anche se spesso non lo sa) e lo sarà sempre di più. È inarrestabile, malgrado tutto, l’avanzata di quella prospettiva di origine evangelica che impregna l’Occidente.
Da qui la domanda, pur restando inteso che ogni credente in Gesù deve farsene sempre apostolo esplicito: il piano di Dio era, ed è, quello di una “conversione” visibile e totale a Lui? Oppure, ha stabilito che i cristiani dichiarati siano sempre un piccolo gregge, un granello di sale, un pizzico di lievito che diffondano ovunque valori che hanno la loro radice nel Vangelo?
Sono domande che mi pongo, e pongo agli altri, anche per rincuorarmi: talvolta rischiamo la delusione, vedendo quanto sia scarsa e, anzi, talvolta in diminuzione l’adesione esplicita al cattolicesimo e, in generale, al cristianesimo. Ma, ponendoci in una prospettiva più allargata, possiamo constatare come in realtà il Vangelo sia penetrato a fondo nella storia del mondo: un Vangelo talvolta deformato, magari irriconoscibile per chi non vada al di là delle apparenze. Ma, a ben pensarci, hanno trovato e trovano continua verifica le parole profetiche di Gesù: «Le mie parole non passeranno». E, malgrado tutto, ha agito e agisce il lievito e il sale che la Rivelazione ha sparso tra di noi.
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A proposito di “delusioni”. Mi parlano della morte di un anziano religioso laico di una Congregazione. Nella sua stanza, hanno trovato una serie di quaderni, tutti con sulla copertina una etichetta su cui stava scritto: Il libro dei torti. Giorno dopo giorno, decennio dopo decennio, quel frate appuntava ogni sera i “torti”, veri o presunti che fossero, che gli sarebbero stati inferti dai superiori e dai confratelli.
Una vita intera, dunque, vissuta nel rancore, nella diffidenza, nella ostilità. Per giunta occultamente, celando il tutto sotto il velo della comunione fraterna. Un caso isolato? Parlo per esperienza: purtroppo, accanto a comunità esemplari ce ne sono alcune dove sembra suonare incongruo (fatto salvo il giudizio di Dio) il salmo intonato nella cappella dell’istituto: Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum! Talvolta, diciamolo chiaro, molti ambienti laici sembrano più vivibili rispetto ai climi di quelli che chiamano “istituti di perfezione”.
Bisogna guardarsi, ovviamente, dal generalizzare e occorre non dimenticare i tanti esempi di impegno ispirati al Vangelo – molti davvero edificanti – che tuttora ci giungono dal mondo dei religiosi. Io stesso ne ho conosciuto e ne conosco parecchi e so che la consacrazione in tante persone non è stata solo una formalità da portare con fatica. Ma proprio da quello stesso Vangelo ci viene l’invito a praticare la verità: la quale, in questo caso, ci dice che molti Ordini e Congregazioni (maschili e femminili, spesso gloriosi per storia e per santità) sono ormai da anni in via di lento ma inesorabile esaurimento. Il tormentato rinnovamento postconciliare di statuti e costituzioni si è rivelato incapace di attirare nuove vocazioni: anzi, in certi casi, le ha rese ancor più improbabili. I giovani sono attratti dall’assoluto, dall’impegno radicale, dal dono totale di sé: la giovinezza è il tempo dell’aut-aut, non dell’et-et che viene dopo, dall’età, dall’esperienza.
Dopo il Vaticano II si è scelta la strada opposta a quella praticata in tutta la storia della Chiesa, dove rinnovamento e riforma sono sempre passati non dall’allentamento ma, al contrario, dal rafforzamento della austerità, del sacrificio, della severità della vita. È l’irrigidimento della disciplina, con la conseguenza dell’obbedienza pronta e completa, non certo la sua debilitazione, che è stato in passato uno degli strumenti del rilancio.
Perché farsi frate o suora se quanto offerto da quella che era chiamata dalla Tradizione via perfectionis non è che una vita da piccolo borghese, per giunta senza la presenza gratificante di una moglie, di una famiglia, di una casa propria, di una professione liberamente scelta?
Anni fa, sul mensile Jesus, pubblicai una serie di articoli proprio su questi temi: andai a intervistare Superiori e Superiore di famiglie religiose piccole e grandi, antiche e recenti, e ovunque trovai la consapevolezza di un declino cui non porranno certo rimedio le nuove leve reclutate nel Terzo Mondo. Tutti mi confermarono che quelle extra-europee sono “vocazioni” troppo spesso instabili, motivate sovente da ragioni sociali ed economiche più che religiose, con grosse difficoltà a vivere o anche solo a capire il carisma dei vari istituti. Il carisma, appunto: gli scopi per cui sono sorte tante famiglie religiose non corrispondono più ai bisogni della società attuale. A livello di istruzione, di sanità, di assistenza, lo Stato sociale si è assunto il carico di problemi cui i Fondatori religiosi volevano porre rimedio, esercitando, ai loro tempi, una mirabile carità che oggi andrebbe però indirizzata ad altri fini: si è cercato di farlo, ma i risultati non sembrano corrispondere alle attese.
Anche perché il Vaticano II, riconoscendo le potenzialità cristiane dello stato laico ha ridotto quelle dello stato religioso, un tempo considerato come il culmine della vita cristiana, la condizione necessaria per raggiungere la “perfezione”. Per far del bene, perché farsi suora o frate? Una domanda cui si è accompagnato il miglioramento radicale delle condizioni di vita, per cui un figlio in un istituto religioso era “una bocca in meno da sfamare”. Mi dicono che ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso giravano per le campagne i “camion dei frati”: ad ogni cascina, una tappa, una breve trattativa con i parenti e uno dei tanti ragazzini o ragazzine di casa saliva sul camion per il “piccolo seminario” o per il noviziato. Forse è anche per questo che, giunta la burrasca della contestazione, almeno un terzo degli ospiti di conventi e canoniche se ne è andato, purtroppo spesso sbattendo anche la porta. Molte altre cose ci sarebbero da aggiungere, tutte peraltro a conferma di una diagnosi dura ma realista: quel che vediamo in tante famiglie religiose è l’esaurimento di una vita che fu fervorosa e ricca di frutti e che ora è ridotta spesso a stanca routine da parte di anziani senza rincalzi che possano prendere il loro posto. Per la prima volta, dopo tanti secoli, chi è ancora in prima linea non ha più riserve giovani alle spalle. Molti Ordini e Congregazioni hanno ormai più case che persone, il problema non è certo avviare nuove iniziative ma ritirarsi da quelle attuali. E ciò cui si pensa non è la costruzione di istituti di formazione, quasi tutti ormai venduti per farne alberghi o uffici pubblici o trasformati nella ennesima “casa di incontri”, ma di ricoveri per permettere ai vecchi religiosi di concludere la vita terrena. Come appresi nel mio girovagare tra Superiori maggiori, soprattutto le Famiglie femminili – centinaia quelle fondate, con i nomi più singolari, tra Pio IX e Pio XII e quasi tutte in via di esaurimento – si consorziano tra loro per attrezzare luoghi di asilo geriatrico non più per i “poveri” di ottocentesca memoria ma per se stesse.
Bisogna dunque capire se il soggiorno in alcune case è deludente, talvolta persino controproducente per chi vi cerchi una spiritualità, una fraternità, un clima di speranza che non sono più in grado di offrire comunità di pochi anziani, spesso malati e magari amareggiati per lo spegnersi degli istituti dov’erano vissuti.
Parlo di questo, qui, in quella prospettiva “apologetica” che sta a cuore a me e ai lettori. Una apologetica che, come sappiamo bene, non si fa solo con i ragionamenti e le parole ma anche con la vita. La vita di noi, che diciamo che una Verità esiste e che vogliamo convincerne i fratelli in umanità. Non aggiunge difficoltà alla credibilità del messaggio, una realtà dove proprio coloro che sarebbero chiamati a testimoniarne la gioia passano magari la vita a compilare un “libro dei torti”? Eccezioni al limite, certo. Ma dov’è oggi in certe case, nate come fari luminosi, la pienezza della vita fraterna, l’esultanza per la certezza della resurrezione che ci attende alla fine della storia?
E qui mi fermo, temendo di essere considerato ingiusto, e magari a ragione. Ma, ripeto, parlo di un trend storico che la Chiesa sta vivendo, non metto tutti nello stesso sacco (ci mancherebbe!) e, soprattutto, non giudico alcuno. Cerco soltanto di descrivere una situazione che è dolorosa per gli stessi interessati. Ma ciò che importa è recuperare una consapevolezza: quella che, indubbiamente, sta morendo una cristianità e, con essa, muoiono anche molte delle istituzioni che le erano proprie. Una cristianità che, per quanto riguarda le famiglie religiose, è iniziata verso il XIII secolo. Il primo millennio è stato rima anacoretico e poi monastico: accanto ai sacerdoti detti secolari, la cosiddetta “vita di perfezione” era solo quella degli eremiti o quella dei monasteri. Monasteri dei Canonici Regolari (la forma più antica di vita cenobitica) e, soprattutto, dei Benedettini che, anche grazie al favore dei papi e dei principi, a cominciare da Carlo Magno, ebbero una sorta di monopolio, pur nei vari rami in cui si divisero. Ma, attorno al Duecento, ecco l’apparizione prima degli Ordini mendicanti e poi di una folla di iniziative religiose fatte da grandi Fondatori che furono anche, al contempo, grandi santi. Una stagione gloriosa che il Concilio di Trento disciplinò e al contempo rilanciò con ancor maggior vigore. I frutti sono stati magnifici, la carità si è resa visibile nel mondo in infinite forme, nate dalla creatività e dall’impegno di una folla di religiosi il cui nome e il cui volto Dio conosce. La Rivoluzione francese prima, e Napoleone poi, sopportarono i preti “da parrocchia” se accettavano di mettersi al servizio del potere, ma volevano far scomparire monaci e frati.
Eppure, non solo Ordini e Congregazioni risorsero vitali dalla persecuzione, ma ebbero un tale rilancio che il lungo pontificato di Pio IX è quello che ha visto sorgere il maggior numero di fondazioni, soprattutto femminili, nell’intera storia della Chiesa.
quasi trionfale: alla morte di papa Pacelli, quantità e qualità della vita religiosa non erano mai state così elevate. Raggiunto lo zenit, ecco le difficoltà che oggi, mezzo secolo dopo, portano a interrogarsi sulla possibilità stessa di sopravvivenza di molte di quelle famiglie.
Attenti, però: a chi ce ne chiede conto dobbiamo ricordare – lo dicevamo – che una cosa è il cristianesimo, altra cosa sono le cristianità che si succedono nella storia e che incarnano la stessa fede in istituzioni diverse. Siamo certamente in una fase di passaggio epocale che, come tutte quelle che si sono susseguite nella storia della Chiesa, sarà ancora lunga e sarà certamente dolorosa.
Ogni parto lo è: difficoltà, lotte, tormenti – ma anche, per compenso, aiuto indefettibile dello Spirito – accompagnano ogni fase della vita della Sponsa Christi. “Vita”, dico, non a caso: proprio la sua capacità di incarnarsi, senza soluzione di continuità, in diverse cristianità, mostra abbia in sé una forza vitale che va al di là delle forze umane.
La Chiesa muta col tempo le sue strutture, le sue istituzioni, le sue leggi canoniche, ma non muta natura e non muta scopo essenziale, quello che è riassunto sin dagli inizi in una formula: Salus animarum suprema lex esto, la salvezza delle anime sia la legge suprema. È per la salus animarum (innanzitutto la loro e, insieme, quella degli altri) che, per un millennio, i cristiani più fervorosi si riunirono nei monasteri e che poi, per quasi un altro millennio, si raccolsero negli Ordini e nelle Congregazioni che sciamarono, operosi nel mondo. Se antiche istituzioni declinano, altre già si affacciano, nuove realtà stanno sostituendo o sostituiranno quelle che hanno esaurito la loro funzione storica. La vita religiosa – quella sotto il triplice impegno di “povertà, castità, obbedienza” – risponde a un bisogno profondo della fede e troverà sempre uomini e donne, pochi o tanti che siano, che vi sono chiamati.
Le forme possono, devono cambiare, ma ancora una volta si mostrerà che “la Croce sta salda mentre il mondo gira”.