Una Chiesa “a rischio di sopravvivenza” ma dove si registrano anche numerose conversioni. Un Paese segnato da una rivoluzione laicista, ma con una preoccupante crescita del fondamentalismo: segnali contraddittori da un luogo dove si tenta di costruire una difficile strada tra islam e modernità
Che in Turchia la vita per i cristiani sia difficile non è una novità, ma è anche complicato riuscire a capire quale sia effettivamente la realtà, sia tra i cristiani, sia nel rapporto con le istituzioni.
Parlando lo scorso 15 ottobre al Sinodo sul Medio Oriente, monsignor Ruggero Franceschini, vescovo di Izmir (Smirne) e amministratore apostolico dell’Anatolia (compito in cui ha sostituito il vescovo Luigi Padovese, ucciso lo scorso 3 giugno), ha fatto un quadro allarmante della situazione. Franceschini ha parlato di una Chiesa di Anatolia “a rischio sopravvivenza” e ha individuato in tre le cause di una “situazione pastorale e amministrativa grave”: «Le divisioni all’interno della comunità cristiana, già fragile di per sé», poi «la gestione dell’economia di tutto il vicariato», e infine «la gravissima scarsità di personale missionario». Franceschini ha quindi insistito sull’urgenza della nomina di «un pastore, qualcuno che lo aiuti, i mezzi per farlo, e tutto questo con ragionevole urgenza ».
D’altra parte, un recente reportage del settimanale Tempi parlava per la Turchia di una “santità popolare nascosta”, riportando le parole di un anonimo (per ragioni di sicurezza) sacerdote italiano presente da anni in Turchia, secondo cui «qui c’è una nuova generazione che sta tornando cristiana. Dico che sta ritornando perché lo era già prima della rivoluzione del 1923». In effetti, all’inizio del ’900, il 25% della popolazione turca era ancora cristiana e ancora nel 1925 il 25% degli abitanti di Istanbul era cristiano. Ma nella Turchia di oggi, che conta 72 milioni di abitanti, i cristiani variano da 65 a 140mila a seconda delle diverse stime (0,1-0,2%). I motivi di questa scomparsa sono diversi: dal genocidio perpetrato contro i cristiani armeni nel 1915 (un milione e mezzo di vittime) alle misure fiscali contro le minoranze negli anni ’30, dai pogrom antigreci alle pressioni della popolazione curda. Ma un ruolo fondamentale ce l’ha il governo “laico” instaurato con la rivoluzione del 1923 da Mustafa Kemal che, con il Trattato di Losanna firmato con la corona britannica, ottenne la clausola che prevedeva uno “scambio di popolazione” tra Grecia e Turchia. Intere zone, allora abitate da cristiani, divennero così musulmane e molti dei cristiani rimasti furono costretti a convertirsi all’islam.
Kemal instaurò in Turchia un regime “laico”, espressione che non va intesa in questo caso come separazione tra Stato e Chiesa tipica dei paesi europei, ma come controllo dello Stato sull’islam, considerato un ostacolo allo sviluppo del Paese. Tutt’oggi questa concezione è viva al punto che l’Ufficio per gli Affari religiosi – che risponde direttamente al primo ministro – conta centomila dipendenti e un budget pari a quello di tre ministeri importanti. Le altre religioni non furono neanche considerate. O meglio, come nel caso della Chiesa cattolica, tutti i suoi immobili – edifici di culto e istituzioni – furono sequestrati, e Chiesa e ordini religiosi lasciati senza alcun riconoscimento giuridico. Oggi la Chiesa cattolica può contare su circa 40mila fedeli divisi in tre circoscrizioni ecclesiastiche di rito latino: l’arcidiocesi di Smirne, il vicariato apostolico di Istanbul e il vicariato apostolico dell’Anatolia. A queste vanno aggiunte le comunità di rito orientale: l’arcidiocesi di Istanbul (armeni cattolici), la diocesi di Diarbekir (caldei) e il vicariato apostolico dei siri cattolici. Si tratta di piccole comunità disseminate in un territorio molto ampio.
Ad ogni modo il fanatismo islamico che ha preso piede negli ultimi anni è solo un fattore aggiuntivo nel quadro di una repressione della presenza cristiana voluta dallo Stato “laico”. Non a caso monsignor Franceschini, ancora nell’intervento al Sinodo del Medio Oriente, è tornato sull’uccisione del vescovo Padovese, che ha attribuito a «un’oscura trama di complicità tra ultranazionalisti e fanatici religiosi, esperti in strategia della tensione».
Del resto, ironia della sorte, è solo con l’ultimo governo dell’islamista Recep Tayyip Erdogan che si hanno piccoli gesti di apertura nei confronti dei cristiani. Lo scorso 15 agosto è stato concesso al patriarca ecumenico di Costantinopoli di celebrare la messa nel santuario della Madonna di Sumela, vicino Trebisonda, che nel 1922 fu semi-distrutto dai kemalisti e trasformato in museo, prima del restauro finanziato dall’Unesco nell’ultimo decennio del XX secolo. Nel settembre 2010, invece, si è tornati a celebrare l’Eucarestia – dopo ben 95 anni – anche nella chiesa della Santa Croce, sull’isola di Aktamar, nel lago di Van. Nello stesso tempo, il Gran Mufti di Turchia Ali Bardakoglu, capo dell’Ufficio per gli Affari religiosi, ha detto pubblicamente che è giusto che venga riaperta la chiesa di San Paolo a Tarso come luogo di culto per i cristiani, mentre ora è adibita a museo. In precedenza, all’inizio di luglio, un altro segno importante era avvenuto per la Chiesa in Turchia: la prima messa celebrata ad Ankara del primo gesuita di nazionalità turca, Antuan Ilgit. Padre Antuan, nato e cresciuto musulmano, si è convertito frequentando la piccola chiesa dedicata a Santa Teresa del Bambin Gesù ad Ankara, durante il servizio militare.
Ma il governo di Erdogan deve fare i conti con la crescita del fondamentalismo islamico, alimentato anche da altri paesi musulmani, che vogliono impedire il tentativo di costruire uno Stato islamico e moderno al tempo stesso. Per questo sarà anche importante il comportamento dei Paesi europei, visto che la Turchia ha chiesto l’adesione all’Unione Europea. In passato – vedi la rivoluzione kemalista – le potenze del continente non hanno mai tenuto in considerazione la presenza cristiana in Turchia e con il loro silenzio si sono rese complici della repressione del regime di Ankara. Oggi è più che mai necessario che la libertà religiosa diventi punto fondamentale del negoziato tra UE e Turchia, se si vuole evitare la deriva fondamentalista del Paese, ma è certo che le premesse non inducono a eccessivo ottimismo.
IL TIMONE N. 9 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 18 – 19