Il miracolo delle nozze di Cana è già stato oggetto della nostra attenzione (il Timone, marzo 2008), mi accingo però a rivisitarlo con convinzione. La Scrittura va letta, ri-letta e ascoltata con attenzione e uno dei segni di un’attenzione amorosa è quello di non stancarsi di ascoltare la stessa cosa. Come un segno inconfondibile dell’amore è quello di non stancarsi di frequentare la stessa persona, di osservare gli stessi occhi, di udire la stessa voce.
San Giovanni lo pone all’inizio del suo Vangelo e nota che «fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù». L’inizio di una realtà non è solo un fatto cronologico, ma ne stabilisce il modello. In questo miracolo ci sono, in nuce, tutti i miracoli della vita di Gesù. Il fatto che avvenga durante una festa di nozze non è solo un dettaglio. Il miracolo è un “segno” dell’attività messianica di Gesù, della sua potenza e della sua gloria. Il fatto che avvenga nel contesto di una cerimonia nuziale ci suggerisce che il matrimonio costituisce un «mistero grande» (Ef 5,31), che svela il senso ultimo dell’agire di Dio nei nostri confronti. È l’amore che lo spinge a entrare nella vicenda degli uomini e a “sposare” la natura umana. Questa natura umana sposata e redenta è la Chiesa.
Così come non è un dettaglio casuale che Maria sia presente. Giovanni lo mette in chiara luce, perché dice subito che «c’era la madre di Gesù» e aggiunge poi che «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ovviamente non vuole insinuare che il Signore sia una figura secondaria, perché in definitiva il miracolo lo fa lui e lui solo, ma non teme di porre con decisione la figura di Maria al centro dell’episodio.
Qui Gesù non indaga – come avverrà spesso nei miracoli che seguiranno – sulla fede di chi glielo chiede: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc 5,36) e il racconto non indugia a rilevare la fede che precede il miracolo: «la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,19). Qui la fede è come impersonata in Maria! Il modo con cui Gesù si rivolge a lei è certamente misterioso. Di primo acchito sembra un’espressione di distacco, una presa di distanza dal sapore quasi offensivo: «Donna, che vuoi da me?», letteralmente «Che c’è fra me e te o Donna? ». Se un figlio si fosse rivolto alla madre chiamandola “Donna”, nel contesto dell’epoca e delle usanze del popolo ebraico (ma direi che questo appartiene ad ogni epoca e ad ogni popolo), si sarebbe meritato un aspro e risentito rimprovero e – se ancora bambino -un (meritato) ceffone. Ma questo appartiene allo stile di Giovanni, usare delle evidenti ambiguità per alludere a un mistero. Come se avesse voluto dire: «Che mistero grande c’è fra me e te o Donna!». Dove il termine si colora di una profondità insolita e arcana, paragonabile al termine tante volte usato da Gesù di “Figlio dell’uomo”. Qui Maria è chiaramente non “una donna”, ma “la Donna”. Donna nel senso di Gn 3,15 e di Gal 4,4; Gv 19,26 e Ap 12,1. Qui Maria è subito esaudita, anzi il suo intervento sembra anticipare l’“ora” di Gesù. «Il miracolo di Cana si caratterizza […] come anticipazione dell’ora ed è interamente a essa legato. Come potremmo dimenticare che questo emozionante mistero dell’anticipazione dell’ora c’è ancora e di continuo? Come Gesù, dietro preghiera di sua Madre, anticipa simbolicamente la sua ora e, insieme, rimanda a essa, così avviene sempre di nuovo nell’Eucaristia: dietro la preghiera della Chiesa, il Signore anticipa in essa il suo ritorno, viene già ora, celebra già ora le nozze con noi, tirandoci così simultaneamente fuori dal nostro tempo, avanti verso quell’“ora”» (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2007, pp. 293-294). L’ora di Gesù è il suo mistero pasquale, il momento solenne e centrale della sua morte e risurrezione, da cui scaturisce ogni salvezza, il momento in cui si consuma in pienezza il suo matrimonio con la natura umana che viene definitivamente divinizzata. L’“ora” è anticipata perché diventa non un evento relegato nel passato o nel futuro, ma qualcosa che succede adesso nella mia vita. Questo miracolo della trasformazione dell’“acqua” della nostra umanità nel “vino” della divinità diventa “nostro” in virtù dell’intercessione di Maria onnipotente per grazia.
Qui Maria impersona la Chiesa che sta davanti a Gesù, diversa da lui non in quanto umanità peccatrice e traditrice, ma in quanto sposa fedele e innamorata. Una diversità che non è più lontananza ed estraneità, ma solo il necessario presupposto dell’amore. Per questo la liturgia ci fa pregare così: «non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa» di cui Maria è membro eminente e Madre. La devozione alla Chiesa e a Maria fanno in definitiva tutt’uno.
IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 60
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