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13.12.2024

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Le prime persecuzioni
31 Gennaio 2014

Le prime persecuzioni

 

 

 

Tra la fine del primo secolo e l’inizio del secondo il cristianesimo si stava già diffondendo in modo dirompente nelle terre dell’Impero Romano. Il fenomeno cominciava a preoccupare le autorità, anche perché minava la religione di Stato, cioè il paganesimo, che attraverso il culto della dea Roma e del divino Imperatore permetteva di mantenere il controllo di popoli molto eterogenei. I governatori locali avevano cercato di arginare la nuova fede nell’unico Dio fatto uomo, ma i loro mezzi, anche se spesso feroci, non ottenevano i risultati sperati. Plinio il Giovane, governatore attorno al 111-113 della Bitinia (attuale Turchia nord-occidentale), scrive diverse lettere al suo imperatore Traiano. In una di queste (che è poi uno dei più antichi testi latini su Cristo ed i cristiani) esprime in modo evidente la sua preoccupazione: «Signore, è per me una regola sottoporti tutte le questioni sulle quali ho dei dubbi. Chi infatti potrebbe meglio dirigere la mia incertezza o istruire la mia ignoranza? Non ho mai partecipato a inchieste sui cristiani: non so pertanto quali fatti e in quale misura si debbano punire o perseguire» (Epistolario, 10,96).
Le domande che Plinio si poneva erano molte: come distinguere i veri cristiani? Bisognava punire gli atti o anche la sola fede? Punire solo gli adulti o anche i bambini? E scrive: «Con non piccola esitazione mi sono chiesto se non vi siano discriminazioni a motivo dell’età, o se la tenera età debba essere trattata diversamente dall’adulta; se si deve perdonare a chi si pente, oppure se a colui che è del tutto cristiano nulla giova abiurare; se viene punito solo il nome, anche se mancano atti delittuosi, o i delitti connessi a quel nome. Nel frattempo ecco come mi sono comportato con coloro che mi sono stati deferiti come cristiani: domandai a loro stessi se fossero cristiani: a quelli che rispondevano affermativamente ripetei due o tre volte la domanda, minacciando il supplizio; quelli che perseveravano li ho fatti uccidere. Non dubitavo infatti, qualsiasi cosa fosse ciò che essi confessavano, che si dovesse punire almeno tale inflessibile ostinazione».
Quello che spaventava le autorità era il constatare di non poter ottenere in alcun modo l’obbedienza. Sapevano assai poco di questa fede, ma si accorgevano che veniva messa al di sopra di tutto, perfino della paura di morire. Nel linguaggio adoperato il cristianesimo è pertanto definito “follia”, “superstizione”, “crimine”: «Altri, presi dalla stessa follia, li misi in nota per mandarli a Roma poiché erano cittadini romani, ma, con il proseguire dell’inchiesta (come accade in simili casi) si estendeva anche il crimine, e si presentarono parecchi casi differenti». Plinio si trovava imbarazzato davanti alle denunce anonime: come capire se avevano fondamento? Spiega a Traiano le tecniche inquisitorie adoperate: «Se invocavano gli dei secondo la formula che io avevo imposta, e se facevano sacrifici con incenso e vino davanti alla tua immagine, che avevo fatto recare a tale scopo, e inoltre maledicevano Cristo (tutte cose che, mi dicono, è impossibile ottenere da coloro che sono veramente cristiani) io ho ritenuto che dovessero essere rilasciati […]. Ho ritenuto tanto più necessario di strappare la verità anche mediante la tortura… Ma non venni a scoprire altro che una superstizione irragionevole e smisurata».
Plinio ci fornisce indiretta conferma sui dati di espansione del cristianesimo: «Ricorro a te per consiglio: l’affare mi è parso degno di tale consultazione, soprattutto per il gran numero di denunciati. Sono molti infatti, di ogni età, di ogni ceto, di ambedue i sessi, coloro che sono stati posti in pericolo. Non è soltanto Le prime persecuzioni nelle città, ma anche nei paesi e nelle campagne, che si è propagato il contagio di questa superstizione. Mi sembra pertanto che si possa contenerla e farla cessare».
Pia illusione: fu l’impero romano a convertirsi e poi cessare, mentre il cristianesimo (ma Plinio non poteva immaginarlo) proseguì per venti secoli. Interessante la risposta di Traiano, pure ritrovata dagli storici nello stesso epistolario: «Mio caro Secondo, tu hai seguito la condotta che dovevi nell’esame delle cause di coloro che a te furono denunciati come cristiani. Certo non si può istituire una regola generale, che abbia per così dire valore di norma fissa. Non devono essere perseguiti d’ufficio. Se sono stati denunciati e hanno confessato, devono essere condannati, però in questo modo: chi negherà di essere cristiano e ne avrà dato prova manifesta, cioè sacrificando agli dei, anche se sia sospetto circa il passato, sia perdonato per il suo pentimento. Quanto alle denunce anonime, esse non devono avere valore in nessuna accusa, perché detestabile esempio e non più del nostro tempo» (Epistolario, 10,97).

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 105 – ANNO XIII – Luglio/Agosto 2011 – pag. 61

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