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14.12.2024

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Le ragioni della Speranza

Le ragioni della Speranza

 

 

 

Radicata nella fede, essa nasce dalla fiducia nel disegno amorevole di Dio su ciascuno di noi, realizzato in Gesù Cristo e sostenuto ad ogni istante dallo Spirito.

 

 

Ci dice Pietro nella sua prima lettera che, seppure con mitezza e rispetto, dobbiamo essere sempre pronti a rispondere a chi ci chiede le ragioni della speranza che è in noi. È molto interessante questa espressione che l’apostolo impiega per richiamarci al cuore del cristianesimo. Perché egli ci dice che dobbiamo saper rendere conto delle ragioni della speranza e non di quelle della fede? Se ci pensiamo bene, infatti, quest’ultima precede logicamente la prima, cosicché non si dovrebbe poter parlare di speranza se non esistesse una fede nella quale essa possa radicarsi. Ma al contempo, ed è qui che l’espressione dell’apostolo assume tutto il suo significato, non può esistere una fede vera, reale, viva, dinamica se non si accompagna e si esprime in una solida, corposa, indistruttibile speranza.
Fede e speranza, dunque, sono due aspetti inscindibili che devono albergare, tra loro connessi, nel cuore di ogni credente in Cristo.
Così, il cristiano che creda ma che non speri è un cristiano dimezzato nel quale la fede non riuscirà a produrre i suoi frutti.
Colui, invece, che spererà salvezza senza però credere davvero alla redenzione operata da Cristo, senza seguirlo con coraggio sulla via che la fede indica, rischierà di vedere progressivamente inaridirsi la propria speranza fino a rischiare di perderla del tutto.
Così, se volessimo impiegare un’immagine significativa che ci aiuti ad esprimere quel che stiamo cercando di spiegare, potremmo dire che la fede è la radice che costituisce il fondamento e che procura l’alimento perché la pianta possa esistere e crescere.
La speranza è l’albero stesso, sono quei rami e quelle foglie che nascono attingendo alle radici e che negli anni crescono e si sviluppano sempre più, quella vita cristiana che traendo alimento dalla fede, acquista una fortezza e una profondità sempre maggiori. I frutti, infine, esito di quelle radici salde e di quell’albero vigoroso, sono quell’altra virtù, anch’essa strettamente legata alle prime due, che è la carità.
È lo stesso Vangelo ad offrirci un’altra immagine significativa di queste profonde interconnessioni fra le tre virtù teologali ed anche a spiegarcene le ragioni nel bellissimo episodio dei discepoli di Emmaus. Come ci narra Luca, i due procedevano tristi lungo il loro cammino, rimuginando dubbiosi sui fatti accaduti a Gerusalemme in quei giorni. Ad un tratto li affianca uno strano viandante.
È Gesù, ma essi non lo riconoscono ancora. Però si sentono stimolati alla confidenza. Così gli aprono il cuore e gli raccontano i motivi della loro angoscia: avevano sperato in quel Galileo, che avevano creduto essere il Messia, ma egli era morto in croce.
Certo, alcune donne erano tornate dal sepolcro in cui era stato collocato riferendo di averlo trovato vuoto mentre una visione di Angeli le rassicurava che egli era risorto e vivo. Ma come credere loro e, di conseguenza, come ritrovare la speranza nella salvezza?
Con parole semplici, Gesù cerca di rinfrancarli, spiegando loro la necessità e l’inevitabilità di quello che era accaduto: «Non doveva forse il Cristo patire tutto questo ed entrare nella sua gloria?».
Mano a mano che quell’uomo parla, la fede dei discepoli comincia a ridestarsi per poi confermarsi del tutto «allo spezzare del pane» quando finalmente riconoscono il Signore. A quel punto tutto diventa chiaro: la fede ritrovata non solo fa rinascere in loro la speranza ma li rende capaci di riconoscere i sintomi che la caratterizzano: «non ardeva forse il nostro cuore quando egli, lungo la via, ci parlava e ci spiegava le Scritture?» Di fronte a quella rivelazione che diventava per loro sempre più chiara, davanti a quel disegno meraviglioso da parte di Dio che aveva come scopo la salvezza dell’uomo, essi non possono che essere felici e pieni di fiducia, ritrovandosi al contempo il cuore pieno d’amore. Tanto che se ne ritornano subito a Gerusalemme per condividere con gli altri apostoli e discepoli quel che era loro accaduto. Per un seguace di Cristo, dunque, la fede diventa di necessità speranza che non può, alla fine, non tramutarsi in amore, in carità.
Anche per noi, oggi, è la presenza di Gesù vivo, seppure nascosto sotto il velo della fede, il fondamento che continua ad alimentare la nostra speranza. I discepoli di Emmaus hanno avuto allora il privilegio di stare con Lui e di vederlo per qualche tempo, di udirlo parlare e consacrare il pane. Poi Gesù sparirà anche dai loro occhi. Ma a quel punto i loro cuori erano diventati capaci di credere in Lui anche senza vederlo. Ed è su quella loro commovente testimonianza, insieme a molte altre pagine di Vangelo, che anche la nostra fede, speranza, carità possono alimentarsi e crescere. Noi crediamo fermamente nel disegno di Dio, in quel suo averci creato per amore, seguiti con misericordiosa fedeltà lungo la storia, riscattati come figli a prezzo della sofferenza del Figlio, uniti a Lui nella gloria eterna alla quale ci indirizza ad ogni istante per mezzo dello Spirito che ci illumina, ci sostiene, ci trasforma a Sua immagine.
Come, dunque, non sperare? Come non essere pieni di serenità profonda che diventa gioia e pace? Non ci sarà peccato che non potrà non venire perdonato, non ci sarà debolezza che non potrà non avere sostegno, non ci sarà sofferenza che, unita alla croce di Cristo, non potrà non trovare un suo senso. Ogni istante, ogni momento della nostra vita diventa così ricco di significato: la preghiera, certo, ma anche il nostro impegnarci con serietà nelle cose del mondo, il dedicarci ai fratelli nel tentativo di trasformare noi stessi, ma anche tutto e tutti, in amore.
La visione del mondo oggi prevalente, proprio insidiando la fede, proprio esaltando la dimensione orizzontale di un uomo che vuol bastare a se stesso, attenta profondamente anche alla speranza, quella vera, quella che si apre all’eterno, trascinando con sé la carità che da gesto squisitamente soprannaturale si trasforma così in semplice solidarismo. Ma quest’uomo miope che non sa più guardare e sperare in grande finisce per smarrirsi e soffocare. Così le sue piccole radici asfittiche non riescono più ad alimentarsi là dove attingono i desideri profondi e segreti dell’anima, cioè in Dio. Dobbiamo saper riconoscere questa sete che si tenta di mascherare, questa fame spirituale che si tenta di negare. Per ciascuno di noi, anzitutto per diventare discepoli che sanno davvero riconoscere il Signore. E poi anche per tutti quei fratelli che non hanno mai saputo o forse hanno dimenticato che cosa significhi potersi abbandonare con piena fiducia nelle braccia della Santa Trinità, di quel Padre che ci ha creato, di quel Figlio che ci ha redento, di quello Spirito che segue e sostiene con la sua luce e la sua grazia i nostri passi da qui fino all’eternità.

Ricorda

«Io pongo sempre innanzi a me il Signore, / sta alla mia destra, non posso vacillare. / Di questo gioisce il mio cuore, / esulta la mia anima; / anche il mio corpo riposa al sicuro, / perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, / né lascerai che il tuo santo veda la corruzione».
(Salmo 16, 8-10).

Bibliografia

Catechismo della Chiesa Cattolica, La fede- La speranza- la carità, nn. 1814-1829, ed. Libreria Editrice Vaticana 1999.

IL TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 56-57

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