Il vescovo di Roma, successore di Pietro, è vicario di Cristo e capo visibile della Chiesa universale. La sua è una potestà universale, piena, suprema, immediata e ordinaria. Per volontà di Gesù Cristo. Ecco perché i cattolici professano il Primato di Pietro.
Il Verbo si è fatto carne e Dio si è donato a noi in Cristo. Questo dono non ci è stato sottratto con l’Ascensione, ma è rimasto in mezzo a noi: “Non vi lascerò orfani” (Gv 14,18).
San Tommaso d’Aquino ha chiamato i sacramenti “reliquie dell’Incarnazione”. Tutto l’ordine sacramentale è come una continuazione, un lascito dell’Incarnazione. Tutti gli aspetti della vita di Gesù e della sua persona ci sono stati lasciati. Anche l’autorità. Gesù infatti aveva autorità. Entrato a Cafarnao si mette a insegnare nella sinagoga e la gente rimane stupita “perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi “ (Me 1,22). Il fatto che la concepisse come servizio non toglie nulla al suo essere una autorità. Nell’ultima cena, davanti allo spettacolo degli apostoli che litigano per i posti a tavola, compie un gesto simbolico: “Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,4-5). Al gesto segue la spiegazione: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (13-15). Servizio qui non significa negazione dell’autorità, ma è l’autorità stessa (“Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono”) che è offerta come servizio. Vuoi dire che l’autorità non ha come fine l’affermazione della propria potenza e l’ottenimento del proprio comodo: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere” (Mt 20,25). Il fine dell’autorità di Gesù è quella di condurre gli uomini alla salvezza, di unirli a sé in un unico “mistico” corpo di cui lui è il Capo.
La mentalità del nostro tempo ci ha disabituati a vedere l’autorità come un dono. Eppure gli uomini ne hanno un estremo bisogno. Anche un’operazione banale come il trasporto di un tavolo da una stanza all’altra richiede che uno diriga le operazioni. Più si è numerosi e più questo bisogno si fa impellente, perché è necessario che i diversi atti dei singoli non si disperdano in direzioni disparate, ma trovino l’unità nel dirigersi verso il fine. C’è un qualcosa di più che i molti da soli non sono in grado di darsi. Questo “di più” è il proprio dell’autorità: non è un caso che il termine autorità venga dal latino augere, cioè aumentare. Se il liberalismo e l’individualismo hanno corroso intrinsecamente la nozione di autorità, facendone solo un inevitabile male, i totalitarismi e gli autoritarismi moderni hanno contribuito a discreditarla e a falsificarne l’immagine.
Alla luce di queste premesse è possibile allora comprendere nel loro vero senso le famose parole di Gesù a Cesarea di Filippo, in cui parla della Chiesa come di un edificio in costruzione e della roccia su cui deve poggiare e da cui deve trarre stabilità e coesione. Innanzitutto il Maestro imposta con gli apostoli il problema della sua identità; il Verbo si è fatto carne, perciò ormai sull’identità della sua persona tutto si fonda. “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 18,13). Al che essi lo informano delle voci che girano sul suo conto: c’è chi lo considera alla stregua di un nuovo Giovanni Battista. Altri parlano di Elia o di Geremia o di un altro profeta. Non c’è affatto bisogno di scomodare la concezione della reincarnazione per capire un tale modo di esprimersi. La reincarnazione è assolutamente estranea alla mentalità biblica: si tratta piuttosto di una eredità spirituale. Allora Gesù pone direttamente la domanda agli apostoli: “Voi chi dite che io sia?” ed è Pietro a rispondere.
Sono circa 171 i passi del Nuovo Testamento in cui a Pietro è attribuito un posto preminente. Pietro ricollega la persona di Gesù non a una qualche missione profetica o eredità spirituale dell’antica profezia, ma la pone immediatamente al centro stesso della vita intima di Dio, nell’origine assoluta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Allora Gesù, davanti a questa perfetta professione di fede pronuncia le parole decisive. Pietro ha parlato ed è al solo Pietro che si rivolge: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Il passo è ricco di aramaismi e di espressioni simboliche ebraiche e ha quindi tutta la freschezza di un evento della vita terrena di Gesù. Secondo la concezione ebraica Dio ha fondato il mondo sulla roccia come una pietra angolare e su di essa è poggiato anche il Tempio. In particolare su questa roccia è situato il Santo dei Santi. La moschea di Omar, che attualmente si erge sulla spianata del Tempio proprio nel luogo corrispondente al Santo dei Santi e all’altare dei sacrifici, è chiamata “Cupola della roccia”. Questa roccia sacra era anche considerata come il coperchio che trattiene le acque caotiche dell’oceano primordiale e insieme anche la porta del regno dei morti. La Chiesa è come il nuovo e definitivo tempio, non più fatto di pietre ma composto di uomini. Come il Tempio sta saldo sulla roccia, così il nuovo Tempio che è la Chiesa trae stabilità e unità dal ministero di Pietro. È sempre questo ministero che impedisce alle forze disgreganti di dissolvere l’unità della Chiesa e alle potenze del male di trionfare su di essa. Noi sappiamo che la pietra angolare è Cristo (cfr. Ef 2,20), ma questo non impedisce che Cristo stesso attribuisca questa sua prerogativa a Pietro perché vi partecipi intimamente, così come accade per altre prerogative, come ad esempio quella di maestro.
Gesù si rivolge a Pietro. La prerogativa di “legare e sciogliere”, cioè di esercitare una autorità dottrinale è attribuita anche all’insieme degli apostoli (cfr. Mt 18,18), ma al solo Pietro è dato di essere roccia e di avere le chiavi del regno. Anche gli apostoli dunque partecipano della suprema autorità nella Chiesa, ma al solo Pietro è dato di essere il principio dell’unità e della stabilità. D’altra parte l’insieme (il “collegio”) degli apostoli non è tale senza Pietro.
Dobbiamo pensare che tutto questo riguardi il solo Pietro e i soli apostoli in modo tale che si estingua con loro? Sarebbe un vero e proprio controsenso. L’edificio quanto più cresce in altezza e complessità tanto più ha bisogno di coesione. Si sarebbe piuttosto tentati di pensare in senso contrario che proprio nell’immediatezza della presenza di Gesù e del suo vivo ricordo non se ne doveva sentire tanto l’esigenza. Infatti constatiamo che questo dono, che Gesù ha fatto alla Chiesa di tutti i tempi già con tutta la pienezza delle sue prerogative, si è sviluppato nel corso del tempo e attraverso una lunga storia ha progressivamente manifestato le sue potenzialità. In modo sempre più accentuato nella misura in cui le esigenze dei tempi lo rendevano necessario. Ma se questo dono non riguardava solo il tempo della vita terrena di Gesù o quello della fondazione della Chiesa, dove ritrovare la sua continuità? Abbiamo degli ottimi argomenti di carattere storico e archeologico per affermare che l’apostolo Pietro ha soggiornato a Roma, lì ha fondato e presieduto una comunità cristiana, lì ha suggellato con il martirio la sua vita terrena e che lì riposano le sue spoglie mortali. La continuità del Primato andrebbe dunque cercata senza esitazione nella successione dei vescovi di Roma, successori di san Pietro. C’è però un argomento ancora più semplice ed evidente. Se infatti per ipotesi il primato non sussistesse nella sede episcopale di Roma non lo si potrebbe più ritrovare da nessun’altra parte, perché solo Roma ha avanzato nella storia questa rivendicazione. Se non fosse lì le acque caotiche e dissolvitrici dell’ “oceano primordiale” avrebbero inghiottito la roccia!
Lo sviluppo di questa prerogativa ha trovato nella definizione dogmatica del concilio ecumenico Vaticano I (1870) il suo culmine e la sua chiara espressione. In quell’occasione la Chiesa ha definito che il vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, ne ha ereditato il primato. Il senso del primato viene precisato per eliminare definitivamente tutti i fraintendimenti che si sono affacciati nel corso della sua lunga storia. Si precisa così che non è solo un primato di onore, ma di vera e propria giurisdizione. Che questo primato di giurisdizione comporta una potestà universale, piena, suprema, immediata e ordinaria.
Non sono “aggiunte” alla semplice nozione di primato, ma esplicitazioni di quello che esso deve essere per non vanificarsi. Se si trattasse di onore soltanto sarebbe qualcosa di estrinseco, di giustapposto. Si onora una persona perché in lui si riconosce qualcosa che è degno di questo onore. Il primato di onore presuppone un primato di altra natura che lo fonda. Se questo si riducesse al crudo fatto che la sede di Roma nell’antichità era la sede della capitale dovremmo arrivare all’assurda conseguenza che è un fatto politico o culturale a fondare l’autorità nella Chiesa. La potestà deve essere piena, cioè tale da estendersi a tutta la vita della Chiesa, come compete al fondamento che tutto regge. Deve essere suprema, cioè non avere altro limite che nella sua natura di fondamento della Chiesa, quindi nel diritto naturale e divino, cioè nella Rivelazione che ci è stata donata in Cristo, che implica anche le verità naturali necessarie per la nostra salvezza. Se non fosse suprema il fondamento dovrebbe appoggiarsi su qualcosa d’altro. Dev’essere universale cioè tale da estendersi a tutti i membri della Chiesa, pastori e fedeli. Immediata, perché è ricevuta immediatamente da Cristo e può essere esercitata immediatamente su tutti i fedeli di Cristo. Si dice anche che la potestà del Papa è ordinaria, nel senso che è una componente intrinseca della sua funzione, non è “delegata” e la può esercitare tutte le volte che lo ritiene opportuno senza dover aspettare condizioni esterne che la legittimino.
Tutte queste caratteristiche che troviamo nel Vaticano I sono recepite dal Vaticano II e raccolte in sintesi dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Al di là del loro tono giuridicamente compassato esse ci aiutano ad accogliere questa importantissima funzione nella Chiesa come espressione della continua presenza del Risorto in mezzo a noi. Nel Papa infatti riconosciamo e veneriamo “il dolce Cristo in terra”.
Pastor aeternus
Insegniamo e dichiariamo, sulla scorta delle testimonianze evangeliche, che al beato Pietro Apostolo fu promesso e conferito da Cristo Signore il primato immediato e diretto su tutta la Chiesa di Dio”.
(Concilio Vaticano I, Costituzione apostolica Pastor aeternus, cap. I).
Fu sempre necessario che ogni altra Chiesa, vale a dire che i fedeli d’ogni parte del mondo, convenissero con la Chiesa Romana, in grazia della sua più alta primizia, affinché con quella Sede dalla quale promanano in tutti i diritti della veneranda comunione, tutti, come membra unite al capo, tutti venissero a formare un corpo unico.
(Concilio Vaticano I, Costituzione apostolica Pastor aeternus, cap. II).
BIBLIOGRAFIA
Ugo Betti, O.F.M., La costituzione dommatica “Pastor aeternis” del Concilio Vaticano I, Pontificio Ateneo “Antonianum”, Roma 1961, pp. 586-626.
Leo Scheffczyk, Il ministero di Pietro. Problema, carisma, servizio, Marietti, Torino 1975.
Joseph Ratzinger, La Chiesa, una comunità sempre in cammino, Paoline, Cinisello Bal.mo (MI) 1991, pp. 33-53.
Klaus Schatz, S.J., Il primato del papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1996.
Dossier: Il primato di Pietro
IL TIMONE N. 12 – ANNO III – Marzo/Aprile 2001 – pag. 30-32