Martedì 11 settembre 2001, forze identificate genericamente come “di matrice islamica” hanno sferrato un attacco terroristico senza precedenti nel cuore di uno Stato, gli Stati Uniti d’America. Si tratta di uno Stato situato all’interno del mondo cosiddetto occidentale e caratterizzato da un’eredità culturale greco-romano-cristiana, che di questo mondo e di questa cultura costituisce -al presente e per così dire – la “forza” e che, quindi, in tali mondo e cultura detiene in qualche modo l’egemonia del potere, non obbligatoriamente il potere giuridicamente normato. Dopo il clamoroso e luttuoso episodio si è aperto un dibattito sulla moralità della reazione, di rado ponendo attenzione agli aspetti dottrinali del problema, ma cercando di ricavarne la regola dalle dichiarazioni di Papa Giovanni Paolo II – o di autorità cattoliche minori -, dichiarazioni inevitabilmente condizionate da considerazioni di carattere congiunturale, anche se tutt’altro che di basso profilo, quali sono, per esempio, quelle che tengono conto della presenza di comunità cristiane nel mondo islamico, fisicamente incluse in esso e, dunque, in qualche modo da esso tenute in ostaggio. La risposta al quesi-to morale si trova in indicazioni contenute nel Catechismo della Chiesa Cattolica, compendio autorevole e autorizzato della dottrina cattolica. Infatti, dopo che, al n. 2258, si è affermato – citando la Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae, intr. 5 (AAS 80 [1988] 70-102) – che “la vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione spedale con il Creatore, suo unico fine”, così che “solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine”, e che “[…] nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente”, al n. 2263 si legge: “La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente, uccisione in cui consiste l’omicidio volontario. ‘Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore… Il primo soltanto è intenzionale, l’altro è involontario’ [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 11-11, 64, 7]”.
Al n. 2264 dello stesso CCC si da ragione della tesi: “L’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: “Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita… E non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui” [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 11-11, 64, 7].
Dunque, ci si può difendere dall’aggressione, e nella difesa si richiede moderazione, cioè sforzo perché sia salva la proporzione e perché tale difesa non debordi, non ecceda, a danno di terzi, che non sia l’ingiusto aggressore medesimo.
Ma vi sono soggetti per i quali quanto si può diventa quanto si deve. Così, al n. 2265, si legge: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità”.
Come si vede, i termini della tesi sono chiari. E offrono pure elementi per risolvere problematiche derivate, come – per esempio – quelle relative alla qualificazione del soggetto contro cui reagire: se è uno Stato, la reazione comporta una dichiarazione di guerra, che al n. 2307 si “esorta tutti a pregare e ad operare” perché sia evitata e ai nn. dal 2309 al 2314 se ne illustrano i pericoli. Ma se si è costretti a contrastare l’azione criminosa di una ONG – la puntuale formulazione è dello storico militare Virgilio Ilari -, cioè di un'”organizzazione non governativa”, la mancanza ufficiale di territorio non toglie verità alla guerra, almeno come metafora: chi riterrebbe impraticabile una “guerra alla mafia” argomentando che non è uno Stato? In analogia: che cosa dire di una multinazionale? Che non è perseguibile, oppure che la mancata collaborazione al suo perseguimento da parte di uno Stato che, con altri, la ospita configura connivenza con l’aggressore perseguito e autorizza la guerra vero nomine contro il connivente? Però, se il nemico non è uno Stato, si tratta di un’operazione di polizia, quindi di competenza dei singoli Stati… Certo, il terrorismo internazionale si presenta come un fenomeno profondamente diverso rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, sì che, per contrastarlo, vanno messi in opera atti singolarmente previsti e di routine per le forze armate, ma in una sequenza e in un insieme sui generis: si tratta di una “guerra di tipo nuovo”. Infatti non è né semplicemente guerra, né semplicemente operazione di polizia: per essere una guerra manca lo Stato nemico, per essere un’operazione di polizia manca il perseguimento del colpevole sul proprio territorio, ma necessita di un’irruzione di dimensioni straordinarie – non di un semplice arresto all’estero – sul territorio di uno o più altri Stati. Né si può dire che non si tratta di difesa, ma d’attacco, perché non vengono rispettati i confini statuali: da tempo ormai i nuovi sistemi d’arma hanno reso di fatto irrilevanti tali “limiti”.
Non resta che augurarsi che, dalle incertezze prodotte dalla tragica novità – forse una “guerra totale da combattere con operazioni militari di polizia” – non abbia ad avvantaggiarsi chi delinque.
RICORDA
“Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravita del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravita, la pena di morte. Per analoghi motivi, i detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità…”.
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2266).