Lepanto è il momento culminante di una “Grande guerra del Mediterraneo” dove cattolici e musulmani si diedero battaglia per un secolo. La vittoria della flotta cristiana attribuita anche alla potente intercessione di Maria. Invocata con la recita del Rosario.
Un fantasma si aggira per la Chiesa ed è quello della mitica vittoria di Lepanto, ancora festeggiata il 7 ottobre da truppe cammellate di cattolici, nostalgici del Concilio di Trento. Gli storici più avveduti hanno già dimostrato come essa sia stata una vittoria isolata nel contesto di una guerra persa, tanto che Venezia cedette Cipro e pagò al Turco una favolosa indennità di guerra. Non fu nemmeno una vittoria della Cristianità occidentale, perché l’imperatore germanico e la Francia evitarono accuratamente di impegnarsi. In definitiva, fu una vittoria sfruttata a livello propagandistico dal papato, ma senza conseguenze per il futuro e che non salvò la Cristianità in quanto essa non fu mai davvero in pericolo. O no?
In effetti, Lepanto è il momento culminante di una “Grande guerra del Mediterraneo” dove cattolici e musulmani si diedero battaglia per un secolo circa, da quando Alfonso V, re del Portogallo, conquistò Anfa, la moderna Casablanca, nel 1468 e Tangeri nel 1471.
Dopo la presa di Granada, il 2 gennaio 1492, il re Ferdinando d’Aragona continuò l’offensiva contro i musulmani, espugnando le basi dalle quali i moriscos, espulsi dalla Spagna, partivano per saccheggiare le coste cristiane, ma le conquiste spagnole furono fermate dal nuovo capo dei pirati di Algeri, Kair ed din, detto Barbarossa, crudele, ingegnoso e spericolato.
Le armate turche del sultano Solimano il Magnifico erano state bloccate nei Balcani dopo l’infruttuoso assedio di Vienna del 1529, ma i successi di Barbarossa diedero a Solimano l’opportunità di colpire l’Europa cristiana dal mare secondo modalità strategiche ben collaudate. Le guerre di conquista ottomane consistevano sempre in una prima fase di scorrerie e predazioni che indebolivano il potenziale economico e umano del paese aggredito, fino all’offensiva finale delle truppe regolari che completavano la conquista e, grazie al bottino, facevano sì che la guerra alimentasse la guerra. Nella prima metà del Cinquecento la guerra del Mediterraneo si fece più brutale che mai, fatta di assedi, battaglie campali e abbordaggi nei quali lo sconfitto aveva una sola alternativa: o la morte o il remo della galera nemica. La svolta avvenne col disastro dell’isola di Djerba nel 1560, dove il re Filippo II perse il più e il meglio del proprio esercito e della propria flotta. Non solo la Spagna, ma tutto il sud Europa rimasero indifese davanti a un’eventuale invasione che, però, mancava ancora di una base fondamentale: l’isola di Malta, difesa dai cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni e che resistette al grande assedio del 1565.
Solimano morì l’anno successivo e il suo successore, Selim II, detto l’Ubriacone, del tutto privo di capacità di governo, era però eccellentemente supportato dal Gran Vizir Sokolli e da uno staff di comandanti di ottima levatura. Così, mentre la Spagna era impegnata nella repressione della rivolta dei moriscos, Sokolli, fedele alla strategia ottomana di attaccare un solo avversario alla volta, sfruttando le divisioni del mondo cristiano, mantenne la pace con l’impero e dichiarò guerra a Venezia con l’obiettivo di conquistare Cipro. Il 9 settembre 1570 Nicosia venne presa e la popolazione sterminata o fatta schiava, mentre la piccola Famagosta continuò a resistere per tutto l’inverno. Solo il 25 maggio 1571 papa Pio V riuscì a vincere le diffidenze di spagnoli e veneziani e riuscì a costituire una Santa Lega, atta a mettere in mare una flotta abbastanza numerosa e combattiva da sconfiggere quella turca.
Il nuovo ammiraglio ottomano, l’aggressivo, capace e ambizioso Alì Pascià aveva intrapreso un grande piano strategico per dividere le forze cristiane e attirare in una trappola la flotta veneziana. Nel giugno del 1571 era stata eseguita una scorreria su Creta, seguita da altre, sempre più pesanti, mentre anche le isole di Zante e di Cefalonia venivano attaccate e la flotta di Kara Hogia incrociava addirittura al largo di Venezia. Alla fine dell’estate, dopo la caduta di Famagosta e il martirio del suo comandante, Marcantonio Bragadin, tutta la flotta ottomana era concentrata a Lepanto, una base navale sicura e ben protetta dove poter svernare in attesa di attaccare direttamente l’Italia. La flotta della Lega, intanto, si era concentrata a Messina e ci volle tutta la diplomazia e il fascino personale di don Giovanni d’Austria, figlio di Carlo V e fratellastro di Filippo II, per tenere insieme un’alleanza fragilissima. Era improbabile che questa resistesse per tutto l’inverno e il risultato sarebbe stato scontato: la flotta ottomana avrebbe potuto colpire un punto qualsiasi della costa adriatica, sopraffacendo veneziani e pontifici, rimasti soli a combattere e l’ambizione di Alì non si sarebbe accontentata di Otranto: chi avrebbe potuto impedirgli di attaccare Venezia o di inviare un corpo di cavalleria fino alla stessa Roma? Fu così che don Giovanni concluse l’ultimo consiglio di guerra, il 16 settembre, dicendo: “Andiamo a stanarli”: quel giorno duecento galee salparono da Messina e a tutti, marinai e soldati, fu dato un rosario. Era la nuova religiosità della Controriforma, austera ed eroica, che diventava cultura e trasformava, partendo da quei combattenti, l’Europa intera.
Domenica 7 ottobre, alle 7,30 del mattino, la flotta ottomana venne avvistata e le galee della Lega si schierarono a battaglia. I turchi avevano adottato la consueta formazione a mezzaluna per aggirare le ali cristiane, ma la battaglia sarebbe stata soprattutto un urto frontale, una guerra di abbordaggi che gli ottomani avrebbero alimentato inviando la propria fanteria sulle 208 galee di prima linea grazie a una sessantina di navi da trasporto, mentre ognuno degli sperimentati arcieri turchi avrebbe scoccato fino a 30 frecce al minuto. Quello ottomano era uno strumento di guerra di altissimo valore, ma ancora medioevale e la flotta cristiana reagì con innovazioni tecniche e tattiche proprie dell’età moderna, puntando sulla potenza di fuoco di artiglierie e moschetti, sull’impiego dei rematori come fanteria d’abbordaggio (quelli sulle navi ottomane erano in gran parte prigionieri di guerra) e sulla forza d’urto di sei imponenti galeazze veneziane.
Mentre le vele turche si avvicinavano lentamente, sulle galee cristiane soldati e marinai sgranavano il rosario nel più assoluto silenzio.
Don Giovanni compì l’ultima ispezione allo schieramento su una veloce fregata passando davanti agli equipaggi, tenendo alto il crocifisso e gridando: “Figli miei, siamo qui per vincere o morire. Nella morte come nella vittoria acquisterete l’immortalità”, poi risalì sull’ammiraglia, la galera Real, issando lo stendardo papale, recante il motto “In hoc signo vinces”. Alle undici del mattino, quando ormai le flotte erano a tiro, il vento di terra che aveva gonfiato le vele ottomane cambiò e cominciò a soffiare in poppa alle navi cristiane, proprio durante la recita del Rosario. Sulle galee musulmane i guerrieri andavano in battaglia come a una festa, al suono di cimbali e tamburi, ma dicono che anche il ventiseienne don Giovanni, sensuale e spavaldo come gli uomini del suo tempo, improvvisò coi suoi ufficiali una danza erotica per esprimere la gioia e la frenesia che provava in quel momento supremo. Poi la parola fu ai cannoni. I pezzi ottomani sparavano alto sopra le vele, ma le artiglierie cristiane, su suggerimento di Gian Andrea Doria, tiravano basso, sotto la linea di galleggiamento, eliminando una galea dopo l’altra dalla linea di combattimento. Le galeazze poste all’avanguardia delle rispettive flotte irruppero nello schieramento turco sparando con tutti i pezzi e seminando la strage, mentre l’ala sinistra cristiana, composta da 63 galee veneziane al comando di Agostino Barbarigo si scontrò coi 56 vascelli di Mehemed Soraq. Subito dopo vi fu l’urto delle divisioni centrali, le 64 galee guidate da don Giovanni d’Austria, Marcantonio Colonna e Sebastiano Venier, contro le 96 navi di Alì Pascià. I turchi tentarono di andare all’abbordaggio, ma furono abbattuti a mucchi dalle pesanti raffiche degli archibugieri del reggimento di Sardegna imbarcato sulla Real. Poi i sardi balzarono sull’ammiraglia di Alì Pascià e don Giovanni con loro, maneggiando lo spadone a due mani. Dopo una lotta furibonda, Alì venne ucciso e la sua testa infilzata su una picca; stessa sorte ebbe Mehemed Soraq, la cui divisione era stata annientata da Agostino Barbarigo, che, a propria volta, fu colpito da una freccia in un occhio e spirò a vittoria conseguita. All’ala destra le 54 galee del Doria, sulle quali erano imbarcati volontari provenienti da tutta Europa vennero scompaginate dalla manovra delle 63 galee e galeotte di Ulugh Alì che riuscì a infliggere gravi perdite alla flotta cristiana, e fu posto in fuga dall’intervento delle 30 galee di riserva, comandate da don Alvaro de Bazan.
A sera la battaglia era terminata. La Lega aveva perduto quindici galee, settemila cristiani erano morti e ben 21.000 feriti, ma la flotta ottomana era stata praticamente annientata: quaranta navi affondate, centodieci catturate, tremila prigionieri, trentamila tra morti e feriti. I cattolici, inferociti dal trattamento riservato a Bragadin, non avevano dato quartiere e passarono per le armi tutti i prigionieri sospetti di avere un qualche valore militare. Più di dodicimila schiavi vennero liberati e Marcantonio Colonna li condusse in pellegrinaggio al santuario di Loreto dove gli ex-galeotti deposero per voto le proprie catene, così che, da quei ferri, vennero ricavate le cancellate che ancora oggi adornano le cappelle interne.
A Roma, la sera del 7 ottobre, papa Pio V ebbe la netta percezione della vittoria e lo comunicò ai suoi collaboratori, e la sensazione che tale trionfo non fosse dovuto unicamente a fattori umani fu unanime, così che quella data divenne la festa della Madonna del Rosario.
Il prosieguo della guerra fu molto meno esaltante: la Lega e sopratutto Filippo II non ebbero la volontà di sfruttare il successo e Venezia concluse una pace separata con la Sublime Porta nel 1573, cedendo Cipro e pagando un’indennità di guerra di 300.000 zecchini.
La flotta turca, ricostruita in pochissimo tempo con materiale scadente, restò a marcire nei porti e costò al sultano quasi come una seconda Lepanto. Tali danni, abbinati alle enormi perdite subite negli equipaggi e negli arcieri, fecero sì che la potenza navale ottomana fu infranta per sempre, per quanto le scorrerie dei pirati continuarono almeno fino al 1830, anno della presa di Algeri.
L’Europa cattolica aveva superato la sua prova più ardua e se è vero che a combattere furono soprattutto italiani e spagnoli, anche 5.000 mercenari tedeschi vi presero parte, insieme a volontari provenienti da ogni angolo della Cristianità, Inghilterra compresa. I cattolici, nei decenni successivi, persero l’egemonia economica e militare a vantaggio dei paesi protestanti del Nord e la figura di don Chisciotte può ben rappresentare quella nobiltà decaduta e stracciona ma ricca di legittimo orgoglio per la lotta sostenuta e vinta.
Proprio Cervantes, rimasto storpio per una ferita subita durante un abbordaggio, affermerà che «le ferite al petto e al volto, sono le stelle che, attraverso l’onore, ti guidano ai cieli»: tanto più se queste ferite erano state riportate nella “mayor jornada che vieron los siglos”.
TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 22-24