Se storicamente è stato il cristianesimo a promuovere la libertà, la domanda e il desiderio di libertà appartengono a ogni uomo, di ogni epoca e di ogni cultura.
Se l’esperienza della libertà entra nella storia con Gesù Cristo, la domanda e il desiderio di libertà appartengono invece a ogni uomo, di ogni epoca e di ogni cultura. Come a dire che Gesù si pone davvero come risposta ai desideri più profondi di ogni uomo, desideri che senza di lui sono destinati a rimanere tali, tentativi di realizzazioni umane dagli esiti tragici. Basti pensare a quante ideologie e spietati regimi dei tempi moderni sono nati proprio come tentativo umano di realizzare la libertà: la Rivoluzione francese, il marxismo, i movimenti anti-colonialisti non nascono forse per «liberare»?
Ma se qui rimaniamo ancora fondamentalmente in un mondo che ha conosciuto il cristianesimo e ne è stato fortemente permeato, è forse più interessante andare a scoprire questo desiderio di libertà in culture totalmente diverse. Senza risalire alle civiltà pre-cristiane – vedi i filosofi greci – ci limitiamo qui a offrire solo alcuni esempi contemporanei, come quello di Aung San Suu Kyi (foto a sinistra), la leader del movimento democratico birmano, premio Nobel per la Pace nel 1991, e tuttora sottoposta a restrizioni dalla giunta militare che governa a Yangoon. Ebbene, proprio il 10 luglio del 1991 fu pubblicato il più significativo saggio della Suu Kyi, «Libertà dalla paura», che poi diede anche il titolo a una raccolta di suoi interventi. Lei, buddhista, in carcere per aver stravinto le elezioni di 3 anni prima, mette in guardia da una «rivoluzione che mira soltanto a cambiare politiche e istituzioni», che anche se «migliorasse le condizioni di vita» sarebbe comunque «destinata all’insuccesso». «La vera rivoluzione – sostiene la Suu Kyi – è spirituale» ed è quella che porta alla «libertà dalla paura», perché «è la paura che corrompe, non il potere». La protesta contro un governo repressivo è nulla se non è per assumersi la responsabilità personale di reagire alla «umiliazione di una vita sfigurata dalla paura».
Libertà dunque come tratto fondamentale che caratterizza un essere umano, un’aspirazione che – pur in modalità diverse – troviamo anche nel pensiero del più famoso dissidente cinese, Wei Jingsheng, protagonista del movimento democratico represso nel sangue in piazza Tienanmen il 4 giugno 1989. In un lungo saggio dedicato allo «spirito della democrazia in Cina», pur attraverso lunghe analisi politiche a volte socialisteggianti, emerge la consapevolezza che la democrazia è in fondo un mezzo, «il modo migliore perché ogni uomo possa essere libero e felice». La libertà vera, secondo Wei, non è tanto la somma di tante libertà (parola, pensiero, d’impresa, ecc.) quanto la possibilità per ogni uomo di essere «protagonista del proprio destino».
È un’intuizione quest’ultima che è stata sviluppata dall’economista indiano (premio Nobel nel 1998) Amartya Sen (foto a destra), che ne ha fatto la base della sua analisi economica, culminata nel saggio «Development as freedom» (tradotto poco correttamente in italiano da Mondadori con Lo sviluppo è libertà). L’idea fondamentale di Sen è che lo sviluppo non può essere misurato soltanto con indici economici e sociali, ma soprattutto in termini di «libertà reale goduta dagli individui», e agli economisti che parlano soltanto di «distribuzione delle risorse» contrappone la possibilità di «distribuzione della felicità».
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«L’espansione della libertà è […] fine primario » e «[…] fine principale dello sviluppo. Lo sviluppo consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire secondo ragione».
(Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori 1999, p. 6).
Bibliografia
Aung San Suu Kyi, Libertà dalla paura, Sperling & Kupfer 1996.
Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori 1999.
Dossier: La libertà: dono inestimabile
IL TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 46