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13.12.2024

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Libertà religiosa: Turchia alla prova
31 Gennaio 2014

Libertà religiosa: Turchia alla prova

 

Più ombre che luci nell’ambigua politica di Ankara verso le minoranze

S’è persa un’occasione d’oro per chiedere al governo della mezzaluna, come condizione per l’ingresso in Europa, più tolleranza e una reale apertura verso i non musulmani. Tra le poche voci in difesa della presenza dei cristiani c’è la Santa Sede. Che aspetta siano mantenute le promesse del premier Erdogan.

Qualche domanda. Perché le autorità turche il 6 dicembre, senza spiegazioni, hanno vietato al vescovo greco ortodosso di Miron di celebrare Messa, come tutti gli anni in quella data, nei ruderi della venerata chiesa di San Nicola, in Asia Minore? Perché la Corte suprema di Ankara, negli stessi giorni, ha privato il Patriarcato ortodosso della proprietà di un orfanotrofio nelle Isole dei Principi, dopo aver già posto il veto, due mesi prima, alla restituzione allo stesso Patriarcato del Seminario teologico di Haiki, «confiscato» dal 1971 , restituzione promessa la primavera scorsa dal premier Erdogan? Perché si nega l’autorizzazione a restaurare la chiesa della Presentazione della Madonna, a Istanbul, colpita assieme al consolato britannico da un attentato terroristico, diniego che ha spinto il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, a denunciare il sopruso e a informare Giovanni Paolo II? Dopo i gravi episodi di violenza e intolleranza verso gli ortodossi, ma anche contro cattolici e protestanti, del recente passato (documentati dai rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, curati dall’Aiuto alla Chiesa che soffre), si assiste ora al sofisticato tentativo di impedire l’apostolato con forme di «persecuzione amministrativa». Ecco perciò il caso del prete trascinato in tribunale con l’accusa di «introdurre modifiche irregolari all’architettura di una chiesa», oppure la chiusura di luoghi di culto con vari pretesti o la proibizione di svolgere attività religiose fuori dai luoghi destinati al culto, per arrivare agli intralci frapposti all’opera della Caritas, sospettata di proselitismo. Nonostante lo Stato si definisca laico, l’appartenenza religiosa è segnata sulla carta di identità. Non ci sono proibizioni legali alla conversione dall’islam a un’altra fede, ma sono molto forti le pressioni sociali contrarie, al punto che i musulmani convertiti spesso sono costretti a lasciare il Paese per evitare rappresaglie.
Tutti questi fatti non giovano alla volontà della Turchia di entrare in Europa a vele spiegate. E chi ostacola una piena libertà religiosa sembra ignorare che sono proprio i cristiani turchi, in prima fila i cattolici, a darsi un gran da fare per favorire il processo di integrazione nell’Unione Europea. Ne è testimonianza che la Conferenza episcopale turca, su esplicita richiesta dei sei vescovi che ne fan parte, ha ottenuto di entrare nel Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee).
Certo, non è facile per una minoranza così sparuta far valere i propri diritti. Infatti, su un totale di 70 milioni di abitanti, la popolazione è al 97 per cento musulmana, mentre i cristiani di tutte le confessioni sono stimati intorno allo 0,6 per cento, circa 400 mila (ma un secolo fa, prima del ge-nocidio degli armeni, cristiani, erano più del 20 per cento!). Accanto agli ortodossi del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ma c’è anche il Patriarcato di Antiochia, ci sono oggi in Turchia alcune decine di migliaia di fedeli delle comunità cattoliche di rito latino, armeno, siro-cattolico, bizantino, maronita, caldeo, e poche migliaia di protestanti di varie denominazioni. L’agenzia Fides sottolinea tuttavia che il numero dei cristiani è maggiore, dal momento che «molti di loro vivono nell’anonimato», soprattutto nei centri più piccoli. Anche perché chi si dichiara cristiano ha serie difficoltà ad accedere al parlamento, alla carriera militare e a diversi altri uffici pubblici.
La Turchia, non dimentichiamolo, è stata la terra natale dell’apostolo Paolo. Oriana Fallaci, nelle roventi pagine della sua Apocalisse, a proposito della Turchia allinea fatti di ieri e di oggi da non cancellare dalla memoria: la trasformazione delle antiche, splendide chiese bizantine in moschee, l’assedio di Vienna da parte degli ottomani come punta estrema della loro penetrazione nell’Europa cristiana, l’atroce genocidio degli armeni (ancoraggi minimizzato dalle autorità turche) e infine la «rivoluzione laica» di Mustafà Kemal Ataturk, dopo la dissoluzione dell’impero: «rivoluzione» che portò sì a un nuovo calendario, a una nuova scrittura e le donne a
non indossare più il velo e a vestire ali’ europea, ma anche a dure restrizioni, sancite da una legge speciale del 1935, che proibiva abiti e distintivi religiosi a tutti i ministri del culto, compresi i musulmani, e che è ancor oggi in vigore (ne fece le spese anche il futuro Giovanni XXIII, allora delegato pontificio, che tuttavia non drammatizzò e disse: «quale importanza ha il fatto che noi portiamo la tonaca o i pantaloni, mentre proclamiamo la parola di Dio?»).
Ora non è più così, conclude la Fallaci: con la vittoria elettorale della coalizione islamica dell’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdogan, stanno conquistando terreno il fanatismo, il burqa, l’applicazione della sharia. Anche se formalmente la Turchia è ancora uno Stato laico, che separa il potere politico dalla fede (l’lslam non è religione di Stato), dove ognuno sulla carta ha libertà di coscienza e credo religioso e dove le celebrazioni e il servizio liturgico possono essere svolti liberamente, le cose stanno cambiando. Preoccupano i decreti ministeriali, grazie ai quali le nuove edizioni dei libri di testo per la scuola turca descrivono come spie, traditori e barbari gli armeni, i greci del Ponto e i cristiani siriano-ortodossi, mentre sinagoghe, chiese e scuole cristiane sono bollate come istituzioni dannose.
Ma non sarebbe corretto non segnalare timide aperture, magari rese strumentalmente necessarie per favorire l’ingresso in Europa. Per esempio, l’incontro avvenuto il 21 giugno 2004, il primo nella storia della Repubblica turca, tra il capo del governo e i vescovi cattolici, nel corso del quale questi ultimi hanno avanzato la richiesta di istituire una Commissione bilaterale sulla questione dello status giuridico della Chiesa cattolica, con tutte le implicazioni. L’incontro è stato giudicato con ottimismo dalla piccola comunità cattolica turca. Padre George Marovich, portavoce dei vescovi, ha detto che l’udienza concessa dal premier «è già molto significativa. Ora, come primo segno di buona volontà, attendiamo il decreto promesso dal premier che riconosca ai padri Assunzionisti, in quanto congregazione religiosa, l’uso dei beni immobili confiscati in passato».
Retroscena clamoroso: è stato il Parlamento europeo a bocciare l’emendamento che obbligava Ankara a conferire personalità giuridica alle Chiese cristiane. E che avrebbe consentito ai sacerdoti di essere riconosciuti come persone al servizio della comunità, il diritto alla proprietà di immobili, alla costruzione di luoghi di culto, all’apertura di scuole e seminari.
Così ora ogni Chiesa dovrà trattare direttamente col governo turco. Che ha trovato ottimi alleati al di qua del Bosforo, se è vero che la nostra «radicale storica» Emma Bonino (quella del divorzio e dell’aborto, oggi a favore della fecondazione artificiale selvaggia e domani dell’eutanasia) si è rallegrata del «confronto aperto» che a suo dire si aprirà tra cristiani e ISlam, augurandosi in fondo che i primi vengano ridimensionati.
In conclusione, Lepanto resta una pagina di storia; ed è perciò anacronistico dire che con il voto favorevole all’avvio delle trattative con la Turchia c’è stata la rivincita di Lepanto (e quindi ora bisognerà… giocare la «bella»!). Ma resta il fatto che la credibilità della Turchia si giocherà soprattutto sulla libertà religiosa. In concreto. Che non significa solo libertà di culto. Restiamo in attesa, come sta saggiamente facendo la Santa Sede. Ma il 3 ottobre 2005, quando le trattative prenderanno ufficialmente il via, è dietro l’angolo.

IL TIMONE – N. 40 – ANNO VII – Febbraio 2005 pag. 10 – 11

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