Il Cardinale-Principe Jòzsef Mindszenty, Primate d’Ungheria, Arcivescovo di Veszprém e poi dell’Arcidiocesi di Esztergom, percorse come un modello di perseveranza, indipendenza e luce gli anni bui del comunismo e del nazismo in Ungheria dal 1919 al ’71. “Quando qualcuno fa una dichiarazione, il più delle volte sottolinea il fatto di avere rotto con il passato e di parlare sinceramente. lo non posso fare un’affermazione del genere, perché non ho bisogno di rompere con il mio passato. Per misericordia di Dio, sono rimasto quello che ero prima dell’incarcerazione. Continuo a professare le mie convinzioni con la stessa ener¬gia psichica e fisica di molti anni fa”, egli ebbe a dire durante la rivoluzione democratica del 1956 con orgogliosa sicurezza.
Fu arrestato per la prima volta quando era insegnante di religione al Ginnasio di Zalaegerszeg, il 20 marzo del 1919. Il Governo socialdemocratico del conte Michael Karolyi, formato nell’ottobre del 1918, si era alleato nel marzo del 1919 con il Partito comunista ungherese fondato dal violento Béla Kun, figlio di un notaio ebreo di stretta osservanza leninista. “Gli operai non hanno patria”, egli diceva. Abbattuta la monarchia di Carlo IV, e nata da una rivolta la repubblica dei Consigli, Béla Kun mise in atto un programma che ricalcava quello bolscevico: nazionalizzazione di banche e imprese, confisca delle grandi proprietà terriere a vantaggio delle cooperative, creazione di una occhiuta polizia politica. L’esperimento fu tanto efferato quanto impopolare da crollare dopo appena 133 giorni, il 1°agosto 1919 per l’intervento dell’armata rumena. Béla Kun venne travolto e il suo rigore fu tanto perverso da essere sgradito persino ai sovietici i quali, dopo averi o ospitato a Mosca, al Komintern e nel sinistro Hotel Lux, tana e asilo di funzionari e capi internazionalisti, finirono con l’esonerarlo dal lavoro politico nel settembre del 1936. Arrestato, morì in circostanze oscure nel 1939.
Mindszenty, liberato, si dedicò a impegnative ricerche e lavori storici, pubblicando nel ’34 una fondamentale opera di 500 pagine sulla “Vita e tempo del vescovo di Veszprém Padànyi Birò Màrton”.
Nel marzo del 1944 l’Ungheria venne occupata dall’esercito hitleriano. Da poco nominato Vescovo a 52 anni (era nato nel 1892), Mindszenty patì la sua seconda prigionia.
“Nessuno ha l’autorità di costringere una nazione al suicidio. A chi ci domanda con che diritto pronunciamo queste parole, rispondiamo: siamo ungheresi; viviamo e vogliamo continuare a vivere condividendo il destino del nostro popolo.
Dio, Santo Stefano, leggi millenarie ci impongono di far sentire il nostro influsso sull’autorità dello Stato. la vita o la morte oggi non è soltanto più una questione politica, ma anzitutto una questione morale”, scrisse Mindszenty assieme ad altri due Vescovi, oltre all’Arciabate di Pannonhalma, Chrysostomus Kelemen, in un Memorandum diretto al Presidente del Consiglio dei Ministri Szollosi.
Nel giugno del 1944, Mindszenty venne arrestato e inviato in carcere assieme a piccoli malfattori, ladri e borsaioli. Trasportato nelle prigioni di Kohida, cercò di celebrare la Santa Messa domenicale: mancavano le ostie, venne usato il pane comune. Nelle pause di silenzio della celebrazione si sentivano risuonare ordini imperiosi e crepitavano le raffiche delle esecuzioni. Intanto, l’Armata Rossa si avvicinò e la notte di Pasqua entrò in Ungheria. Il Sindaco aveva convocato una pubblica riunione per dare una degna accoglienza ai liberatori e invitò anche il Vescovo di Székesfehérvà e Mindszenty.
Come prigioniero liberato, egli fu pregato di dare il benvenuto. Il Prelato si rifiutò argomentando che egli non era stato liberato, ma semplicemente abbandonato da poliziotti in fuga e, comunque, si aspettava di trovarsi ancora in difficoltà.
L’8 settembre 1945, l’Arcivescovo di Kalocsa, Presidente della Conferenza episcopale, gli comunicò che il Santo Padre desiderava che Mindszenty accettasse l’Arcidiocesi di Esztergom e, quindi, la carica di Primate ungherese. Pio XII lo ricevette con grande e pubblica amabilità a Roma nel dicembre successivo.
Cominciò in Ungheria la schiavitù imposta dai nuovi padroni russi e, di conseguenza, gli attacchi, le calunnie, le provocazioni contro il Primate. Egli era solito rispondere con le parole della Scrittura: “Coloro che mi odiano sono giunti; essi sono più forti di me; mi hanno sopraffatto; è il potere delle tenebre”. Il giorno di Santo Stefano del 1948 il Cardinale venne arrestato e condotto nella famigerata, terribile prigione di via Andrassy 60. Gli furono sequestrati il breviario, il rosario, “l’imitazione di Cristo”, la medaglia di Maria, l’orologio e il Codice di Diritto penale che si era portato dietro onde potersi difendere in mancanza di un avvocato.
L’accusa formale fu di alto tradimento per avere mantenuto i contatti con Otto von Habsburg e con l’Ambasciata americana, testualmente “allo scopo di scatenare una Terza guerra mondiale”.
Fisicamente ridotto ad uno stato di semi-incoscienza, per le droghe somministrategli durante i pasti, fu trascinato al processo che durò tre giorni. I presunti complici del Primate furono condannati con pene da sei ai quindici anni. A lui fu comminato l’ergastolo. AI detenuto non fu concesso di esprimere compiutamente le sue ragioni.
Dovette rispondere alle contestazioni della giuria popolare e del Tribunale con un sì o con un no. Il 14 agosto la sentenza passò in giudicato. Solo la madre fu ammessa ai colloqui con il detenuto con l’espressa condizione di parlare solo di faccende famigliari. la prima visita ebbe luogo due settimane dopo e, in tutto, furono tre. l’ultima visita ebbe luogo il 25 settembre 1949. Privato dell’abito talare, il Cardinale venne ristretto in una cella angusta. Una volta gli fu inopinatamente comandato di indossare l’abito da Cardinale: fu condotto nei sotterranei in una sala magnificamente ammobiliata, dove il Generale Gàbor Péter, comandante della sicurezza, riceveva i suoi alti collaboratori. In quel luogo falsamente dimostrativo, una specie di scenario teatrale utilizzato per l’occasione, egli ricevette la visita di un “rappresentante della stampa italiana”. Era il senatore comunista Ottavi o Pastore che veniva da Roma “per constatare se era ancora vivo”, per “smentire la voce che era già stato deportato in Siberia”. Il quotidiano comunista “L’Unità”, nel suo numero del 6 febbraio 1949, pubblicò una corrispondenza da Budapest in base alla quale Gian Carlo pajetta, uno dei leader del Pci, dedicò a Mindszenty un articolo di fondo intitolato “Un vinto”. “Il sacerdozio e l’alta carica sacerdotale sembrano entrarci solo per inciso ma spiegano certe ingenuità del cospiratore. Il Primate d’Ungheria non è un eroe. Non è nemmeno un vigliacco. Lo ha ingannato l’America”.
La durissima prigionia ebbe termine soltanto nel 1956, quando il popolo ungherese prese le armi per combattere contro l’invasore sovietico. Il 3 novembre, il Primate tenne in Parlamento un discorso memorabile in difesa della libertà che venne radiotrasmesso in tutto il Paese. Egli divenne l’anima vera della rivolta, la sua voce più autentica, la sua ispirazione spirituale. Quella sera stessa i carri armati sovietici aprirono il fuoco contro il popolo di Budapest. Centinaia di cannoni tuonarono sulla città. Il ministro della guerra Maléter, il Capo di Stato maggiore ungherese Generale Kovàcs, recatisi a Tokol, Quartier generale russo per parlamentare, furono arrestati alla presenza del Generale sovietico Comandante in capo, Serov. Nella città in fiamme, il sangue popolare venne sparso copiosamente. Regnò il terrore. Il Presidente del Consiglio, Imre Nagy, eletto legittimamente nell’ottobre, fu destituito e arrestato. Verrà successivamente giustiziato nel 1958.
Il Primate, sorpreso in Parlamento, riuscì fortunosamente ad uscirne.
Egli scrive nelle sue “Memorie”, pubblicate nel gennaio 1975 in Germania: “Mi informai rapidamente quale fosse l’Ambasciata più vicina.
Qualcuno mi disse che era quella americana e così decidemmo di recarci là, di corsa. Nascondemmo la tala re sotto i mantelli e tra due file di carri armati russi giungemmo fino alla Piazza della Libertà e di lì ali’ Ambasciata degli Stati Uniti. Il Ministro Edward Thompson Wailes mi accolse cordialmente sulle scale quale “simbolo della libertà”. Dopo appena mezz’ora il Presidente Eisenhower diede telegraficamente l’autorizzazione ad accogliere il Primate all’Ambasciata.
Il 10 luglio 1971, Papa Paolo VI chiese al Cardinale Mindszenty di lasciare l’Ambasciata per ragioni di politica internazionale. Il 28 settembre, Mindszenty raggiunse Vienna e di qui, in compagnia dell’Arcivescovo Casaroli, raggiunse Roma. Accompagnato in corteo solenne alla Torre di San Giovanni, egli fu accolto dal Santo Padre che lo abbracciò, si tolse la croce pettorale, gliela mise al collo, gli porse il braccio e lo introdusse nel Palazzo.
Dopo aver rinunziato alla sua carica di Arcivescovo e alla sua dignità di Primate di Ungheria, Mindszenty, trasferitosi al seminario “Pazmaneum” di Vienna, morirà il 6 maggio 1975.
Una vita dedicata alla libertà, alla verità, al suo popolo, alla fede adamantina che lo sorresse nelle amare vicende di una vita esemplare.