L’esistenza dell’inferno è confermata dalla predicazione di Gesù (Mt 25, Lc 16), dai Padri della Chiesa e dalla Tradizione, dall’insegnamento del Magistero (CCC 1033-1037), dalle molteplici esperienze dei mistici. Tuttavia, permane una corrente neo-modernista all’interno della teologia che ne nega l’esistenza. In sostanza viene affermato: l’inferno esiste come possibilità, ma è vuoto. Secondo questa tesi, Dio costringerebbe dunque tutti ad amarlo e la svalutazione del libero arbitrio risulta dunque evidente. Ma l’argomentazione che viene contrapposta dai fautori della suddetta tesi è questa: come potrebbe una madre essere felice in paradiso sapendo che suo figlio è all’inferno?
Questo interrogativo, che intende porsi come molto convincente, contiene in realtà diversi errori. Per prima cosa, pone “la madre” come criterio assoluto di verità e di amore, scavalcando direttamente la verità e l’amore di Dio infinitamente più elevati. In secondo luogo, pone “il figlio” come oggetto assoluto di amore, mentre non è la parentela la causa dell’amore fra le anime, ma la loro somiglianza con Dio, presente non solo in un figlio, ma in tutte le creature beate. Lo scandalo sarebbe semmai molto più grande, perché Dio ama molto di più di quella madre, e noi ameremo molte più anime che non i soli figli.
Perciò, l’interrogativo posto inizialmente come obiezione è un interrogativo umano molto fragile, a cui talvolta ci si limita a rispondere: come potrebbe una madre essere felice in paradiso vedendo di fianco a lei l’assassino non pentito di suo figlio?
Per comprendere più a fondo il mistero (perché non bisogna mai dimenticare che i “Novissimi” sono misteri non scandagliabili completamente dalla ragione ed estranei alla nostra esperienza), possiamo però riflettere sul concetto di amore e su quello di persona.
In fondo, perché amiamo una persona? Perché scorgiamo in essa un bene. E perché la persona è un bene? Perché contiene una scintilla di quel bene sommo che è Dio, di cui è un riflesso. Mentre Dio è sommo Bene in sé, le anime derivano il proprio bene da Dio, sono come specchi che non brillano di luce propria, ma riflettono la propria luce da Dio. L’amore non è altro che attrazione verso questa somiglianza. Siamo fatti per Dio e non amiamo altro che Dio. Certo, amiamo anche le persone, ma perché sono immagine e somiglianza di Dio. Noi non riusciamo ad amare se non ciò che, almeno in misura ridottissima, contiene ancora una scintilla di Dio. È per questa ragione che non riusciamo ad amare i démoni. Pur sapendo che un tempo erano angeli, hanno poi perso per noi ogni amabilità.
L’amore esige la presenza di un’altra persona come oggetto del nostro amore. Ma cos’è la persona se non il “luogo di risonanza” (per-sonam) del L’inferno Verbo? È la nostra appartenenza a Dio che ci conferisce la nostra natura di persona. Rinunciare a Dio conduce non solo alla perdita della propria capacità di amare, ma anche alla perdita della propria amabilità. Lo specchio disorientato non riflette più alcuna luce. Certo, resta l’io, perché Dio l’ha creato immortale, ma si tratta, nel contesto dell’esclusione eterna, di un io privo di ogni somiglianza col Creatore e dunque privo di ogni amabilità.
In questo senso sì, l’inferno è “vuoto”, perché ha perso ogni contenuto precedentemente riferito all’essere, ridotto alla pura e semplice dimensione dell’esistere. Vi sono sì i dannati, ma non assomigliano più in nulla a quello che erano, sono esseri che hanno del tutto perso ogni originaria riconoscibilità, che si sono completamente uniformati alla tenebra, la quale non solo non si lascia amare, ma non si lascia nemmeno più “vedere”.
Tutto questo però non distrugge la drammaticità dell’inferno, per salvarci dal quale Cristo ha versato per intero il suo sangue. Egli è il Salvatore. Ed è proprio la drammaticità dell’inferno e la sua esistenza che rende indispensabile il suo sacrificio, reso invece inutile dal concetto di “salvezza automatica”.
Ma Dio non poteva far sì che tutti lo amassimo? L’amore è un atto libero, e presuppone perciò il libero arbitrio. In quanto figli di Dio, conserviamo in noi l’immagine della sua libertà, impressaci dall’atto creativo che ci ha dato forma. Pertanto Dio non costringe nessuno ad amarlo, tanto meno chi non lo vuole: «Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo» (CCC 1033).
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 61
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