«L’isolamento del santuario è necessario affinché esso non sembri inesistente, rimuovete l’iconostasi materiale e il santuario come tale svanirà del tutto ai nostri sensi». Quest’affermazione di Pavel Florenskij, che riassume una parte del suo libro Iconostasi, offre molteplici spunti per una riflessione sul Sacro. Infatti, a parte il riferimento esplicito all’iconostasi, il muro che nelle chiese orientali divide il Santuario dall’aula dove si raccolgono i fedeli, è chiaro che la portata dell’affermazione è ben più ampia.
La sentenza esprime infatti un giudizio sulla nostra capacità di percepire la sacralità di un luogo, e quindi la presenza stessa del divino, e sebbene con la radicalità di ogni sentenza memorabile finisce per assoggettare tale capacità all’esistenza e all’espressività di un elemento materiale. Ne emerge la straordinaria centralità dell’opera degli architetti e degli artisti nella trasmissione del messaggio liturgico: essi non sono più semplicemente i costruttori e i decoratori di un luogo destinato al culto, ma diventano i mediatori, gli affidatari del compito fondamentale di rendere visibile agli occhi dello spirito degli astanti ciò che la liturgia compie davanti ai loro occhi carnali. Depositaria dunque della vera missione di rappresentare il senso della liturgia, e quindi delle parti fondamentali della teologia stessa, l’espressione artistica e architettonica deve necessariamente sottomettersi al messaggio liturgico per soddisfare al meglio la sua funzione.
Prima e vera funzionalità di un edificio di culto è infatti la fedeltà al messaggio che il culto trasmette. Solo in quest’ottica di vera funzionalità, della funzionalità rappresentativa, opposta ad una falsa funzionalità di stampo meccanico legata alle necessità e alle contingenze, si può comprendere il permanere di alcune caratteristiche attraverso la storia dell’edilizia di culto occidentale, caratteristiche tali da distinguerla dai templi di altre confessioni e religioni, ovvero delle strutture volte all’espressione di dottrine in tutto o in parte diverse. Coerentemente con una concezione dell’arte sacra come specchio della liturgia e della teologia, il recupero di queste costanti architettoniche sembra inevitabile nel momento storico in cui il romano Pontefice cerca di ricucire il tessuto sfilacciato, sebbene mai reciso, della tradizione liturgica. Come quest’ultima ha percorso i secoli modificando a volte le proprie vesti e svestendosi di alcune divenute obsolete, ma conservando sempre quella struttura e quelle parole che ne identificano la missione e la natura, così la concezione dello spazio liturgico, pur mutando stili e tecniche, si è mantenuta fedele nei secoli ad alcune regole, che fino a tempi recenti non era mai stato necessario enunciare, perché risultanti naturalmente dallo spirito della liturgia, e tanto radicate nella comprensione comune e nella fede diffusa da risultare spontanee nell’applicazione anche per l’architetto più estraneo ad impeti mistici. Non sorprende quindi notare che la delimitazione degli ambienti di funzione e significato diverso e l’esaltazione delle loro soglie di passaggio, la soprelevazione graduale delle diverse aree liturgiche, la parallela gradazione della qualità e della ricchezza della decorazione, la sostanziale simmetria dell’edificio, e l’uso accurato della luce abbiano fatto incessantemente parte della tradizione delle costruzioni ecclesiali e della loro decorazione fino al Novecento, indipendentemente dal diverso stile e dalla personalità dei loro artefici. Sono questi dunque gli elementi che hanno dato corpo visibile al Sacro cristiano nella cattolicità occidentale, ed è da essi che si dovrà ripartire se si risponderà affermativamente alla domanda dell’allora cardinal Ratzinger nel suo libro Introduzione allo spirito della Liturgia: «dopo che il velo del tempio si è squarciato e il cuore di Dio è aperto per noi nel cuore trafitto del Crocifisso, abbiamo ancora bisogno dello spazio sacro, dei simboli mediatori?».
IL TIMONE N. 95 – ANNO XII – Luglio/Agosto 2010 – pag. 47