Che cosa è lo zelo amaro [zêlos pikrós] (Gc 3,14)? È uno zelo per il bene, ma non animato (addolcito) dalla carità e quindi dannoso. È tipico dei principianti: all’inizio è segno di volontà seria di bene, ma con il passare del tempo rivela la sua forza distruttiva.
Ne parla anche san Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, cap. 28: «L’anima facendo un confronto, giudica gli altri cattivi e imperfetti, sembrandole che essi non agiscano e operino bene come lei, stimandoli di meno in cuor suo e spesso anche a parole» (ma si veda tutto il capitolo!). Esso nasce da un confronto tra sé e gli altri, in cui lo stupore tra quanto il Signore sta operando in noi, per esempio la conversione, lascia il posto ad un segreto orgoglio, per cui si dimentica Chi è all’origine di questo miracolo. Ho visto tanti sbagliare, perché irretiti in questa mentalità, avvelenati da questa amarezza che acceca.
Dice san Francesco d’Assisi nella Regula bullata: «[…] tutti i fratelli si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, a non giudicar gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate. Ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso».
Dobbiamo stare attenti cioè a non giudicare. «Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Mt 7,1-2). Il nostro giudizio può – e per tanti versi deve – portare sui comportamenti buoni e cattivi che troviamo davanti a noi e intorno a noi: il bene e il male esistono, saremmo sciocchi se non volessimo vederli. Saremmo addirittura malvagi se li volessimo confondere fino al punto di negare la differenza. Il relativismo ambientale in cui siamo immersi ci invita in modo suasivo e falsamente pacificante a cadere in queste sabbie mobili, in cui fatalmente sprofonda senza possibilità di trovare un punto fermo chi vi si avventura imprudentemente. «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Is 5,20).
Prima di tutto il nostro giudizio è sempre un giudizio limitato, perché – esclusa una speciale ispirazione divina – ci sfugge l’essenziale: il cuore dell’uomo (cfr. Ger 17,9-10). Noi vediamo solo l’esteriorità e quello che sta dentro lo comprendiamo solo per congettura (1 Sam 16,7). I nostri giudizi sulle persone, anche quando sono necessari e doverosi, sono sempre penultimi e mai definitivi.
Ma anche in questi giudizi “penultimi”, dobbiamo stare attenti ad essere corretti e quindi a tener conto di ciò che è principale e di ciò che è secondario. Normalmente, le persone non sono totalmente coerenti nei loro atteggiamenti: c’è sempre qualcosa che non torna: «[…] il giusto cade sette volte» (Pr 24,16). D’altronde, se ci esaminiamo attentamente davanti a Dio scopriamo facilmente tante incoerenze nei nostri stessi comportamenti: siamo per esempio proprio sicuri di non aver mai giudicato male il nostro prossimo e di non aver proferito a suo riguardo parole cattive, non provate e ingiuriose? Il saggio è colui che sa discernere negli atteggiamenti di una persona quello che veramente conta da quello che è accessorio. Si tratta di qualcosa di difficilissimo: se non ci si riesce è meglio astenersi. Così insegna sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali: «[…] occorre presupporre che ogni buon cristiano debba essere più disposto a interpretare una affermazione oscura del prossimo in senso buono che a condannarla. Se non può giustificarla in nessun modo, si faccia spiegare come egli la intende, e se il senso non è proprio corretto lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi convenienti perché la sua comprensione sia sana e sia liberato dall’errore» (n. 22). Non si corre così il rischio di non difendersi dal male? Di cadere nei lacci del nemico astuto?
Ci vuole discernimento, che è un dono di Dio e frutto di esperienza e di allenamento. In ciò consiste una parte essenziale di quella sapienza che Salomone ha chiesto e ottenuto da Dio (Sap 9,4; cfr. 1 Re 3,9). A volte, ci sono persone astute da cui stare in guardia. Ecco perché Gesù parlava pubblicamente male dei farisei: perché voleva mettere in guardia i suoi discepoli dalle loro macchinazioni e scuotere le loro coscienze e condurli a ravvedersi. Se però non sono sicuro debbo astenermi dal dare giudizi, altrimenti pecco gravemente e il male mi ha vinto e conquistato.
Discernere il nucleo buono delle persone e fondarsi su di esso allora non è dabbenaggine, ma saggezza cristiana. Dare fiducia alle persone è un modo sicuro per aiutarle a diventare buone e per diventare buoni noi.
Attaccarsi al particolare negativo, tralasciando il fondo positivo è il modo migliore per crescere nella cultura del sospetto che ti avvelena la vita, fa il vuoto attorno a te, ti rende odioso agli altri e cieco riguardo al bene che ti circonda. Di più: ti rende strumento diabolico del peggioramento del prossimo che tu incontri: «Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica » (Gc 3,15).
«Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la paglipagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Mt 7,3-5).
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 60
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