Gli ingredienti per una buona apologetica? Umiltà, oggettività e lealtà, le condizioni preliminari. E la preghiera. Poi spiegare perché la fede è ragionevole. Basta e avanza per accendere la fede in una persona disposta.
I vescovi di solito scrivono lettere pastorali. Lui continua a scrivere (anche) libri: i quali riescono sempre controcorrente rispetto alle mode, inattesi per argomento eppure “tradizionali” (ovvero attaccati, persino fieri della tradizione cattolica), insomma liberi; nonché – spesso – puntuti. Non per nulla, nel suo più recente volume – La santa paura. L’arte di morire, uscito per Mondadori – monsignor Alessandro Maggiolini ha fatto scrivere come breve biografia dell’autore: “Vescovo di Corno. Non da l’impressione di essere molto intimorito dalla cultura ufficiale: quella degli intellettuali organici. Organici anche a un qualche rigido schema clericale”. Niente di meglio, dunque, di un vescovo “disorganico” per discutere a ruota libera di apologetica oggi.
Monsignor Maggiolini, di solito l’apologetica è reputata inconciliabile col dialogo. È davvero così?
“L’apologetica è il dialogo quando questo tenta di offrire degli ìndici di credibilità; dunque, essa è connotata anche dall’aspetto di evangelizzazione. Senza il dialogo si rischia di buttare in faccia il contenuto della fede e le ragioni che vi conducono, senza preparare l’altro ad accogliere il Rivelatore e la pienezza della Rivelazione che è Cristo. Senza la spinta dell’annuncio evangelico – che giustifica il dipanarsi dell’apologetica -, il rischio che si corre è di parlare costantemente di altro. Anche la tecnica continuamente enunciata del limitarsi a ciò che unisce, tralasciando ciò che divide, è illusoria e inconcludente alla fine, se si vuoi essere leali. Non si dimentichi, poi, che il continuo insistere su delle vaghezze senza arrivare al nocciolo delle questioni, conduce gradatamente e quasi insensibilmente a un relativismo secondo il quale tutte le Chiese, le comunità cristiane e le religioni del mondo si equivalgono. 11 modo migliore per andar d’accordo con tutte le idee è quello di non averne”.
Oggi la religiosità punta molto sul sentimento, più che sulla ragione: convince chi commuove, non chi dimostra. Dunque non è meglio lasciare la “vecchia” apologetica e ripiegare su mezzi che garantiscano più audience?
“Ritengo che non si debbano per principio rifiutare i mezzi di diffusione che ottengono l’attenzione del maggior numero di persone. E, tuttavia, bisognerà pure fare i conti con la labilità, oltre che con l’imprecisione, del sentimento. Quando si giunge a far leva sulla componente emotiva della persona, si costruisce fatalmente sulla sabbia. Oggi ci si sente infervorati fino a scoppiare, domani si è aridi come cocci. Ecco la necessità della ragione. Durante il Medioevo l’apprendimento a leggere era attuato soprattutto con la Bibbia e il Catechismo. Oggi, nell’era dell’uomo televisivo e telematico, probabilmente tocca ancora alla Chiesa insegnare a leggere e a riflettere”.
Prendiamo però il vecchio “controversismo” cattolico: dopo la fine delle ideologie, quali nemici restano ancora da combattere? C’è chi sostiene che la più convincente apologetica sia la pura e semplice testimonianza.
“Attualmente gli ateismi, le eresie e gli scismi sono di difficilissima – o addirittura impossibile – identificazione. Ancor più arduo è il compito di rinvenire gli argomenti da portare per opporsi agli errori. Anche perché spesso filosofi anticristiani, o acristiani, sembra parlino di cristianesimo perché ne usano il linguaggio, mentre in realtà sono degli gnostici. A ciò si aggiunga l’atteggiamento di indifferenza assai diffuso, per cui, al cuore inquieto di agostiniana ascendenza, si ribatte assicurando che si è quietissimi nell’animo. Mentre il credente sa per fede che ciò non è vero, dal momento che lo Spirito lavora nel cuore di ogni uomo fino alla morte. Semmai la testimonianza serve – o è necessaria – a svegliare l’interesse per il mistero almeno in tappe singolari e decisive della vita. Da suscitare è il senso dello stupore, della gratuità, della riconoscenza, eccetera, esattamente per introdurre il discorso dei segni che rendono la fede ragionevole”.
Quali sono gli errori, gli eccessi dai quali l’apologetica del passato dovrebbe guardarsi oggi, secondo lei?
“Chiederei di non leggere il passato con le convinzioni – e i pregiudizi – che sono di oggi e che forse non sono la verità totale e ultima. Suggerirei di impostare un’apologetica che insista molto sull’umiltà del fedele, perché questi non si atteggi a docente di una decisione che è della libertà dell’altro e soprattutto è regalo di Dio. La fede è ragionevole, non razionale. Esige degli indizi che mostrino la Rivelazione di Cristo – e Cristo stesso – come da accettare per un imperativo etico, se si intende essere coerenti con se stessi. Sulla linea di questo discorso non sarà inutile rilevare che l’atto di credere è, paradossalmente, immorale se l’adulto che si apre a Dio non ha un minimo di prove razionali, pur indirette ed embrionali, che in qualche modo giustifichino la sua apertura all’irrompere del Divino. L’impostazione fondamentale all’apologetica non è quella di tirare gli argomenti per i capelli in vista di una decisione dell’altro a tutti i costi. La tensione all’oggettività, la lealtà più assoluta che si riesce a raggiungere offre quanto basta e cresce per accendere la fede in una persona disposta. Chiederei anche di non tormentarsi, da parte dei cristiani, per rendersi credibili e per rendere credibile la Chiesa. In parte sono fisime, queste. L’importante non è essere credibili, ma essere credenti. Il resto viene da sé con la grazia di Dio”.
E quali sono i punti su cui dovrebbe puntare di più l’apologetica moderna: storia della Chiesa, teologia, morale…?
“Vedrei soprattutto tre capitoli su cui insistere. Anzitutto vorrei che fosse chiaro che le prove della fede non provano un bel nulla, se uno è deciso a non credere. Da sottolineare è anche esattamente questa limpidezza, questa genuinità, questa verginità dell’animo, che non pone nessuna riserva all’eventualità che Dio si proponga e chieda l’assenso e la comunione con lui in Cristo. Si tratta di un discorso delicato e pericoloso. Ma va pur fatto. E per evidenziare la responsabilità dell’altro, e perché l’apologeta non si torturi per la propria indegnità: vera, peraltro; ma non ostacolante il suo impegno di convincimento. Ritengo poi che sia da impostare una metodologia che, senza pretese, si orienti a suscitare attenzione e interesse alla componente religiosa cristiana là dove sembra esserci soltanto disincanto, negazione postulatoria, ateismo preconcetto, indifferenza, eccetera. A questo proposito, però, mi rendo conto che non si giungerà ad alcun risultato senza la collaborazione dell’interlocutore. Suggerirei infine all’apologetica – agli apologeti, meglio – di non dimenticare la preghiera per coloro ai quali si parla. La fede deriva innanzitutto dalla grazia del Signore: è regalo di Dio; ricevuto, ma regalo di Dio. E di collocarsi nel grembo di una vivace Madre Chiesa sempre abitata da santi, anche nascosti e privi di lustro, se si riesce a scovarli. Poi verranno le discussioni su temi precisi”.
Ma perché anche ai cristiani sembra sempre più “progressista” trovare i difetti della Chiesa, anziché difenderla?
“Non riesco più a capire ciò che è progressista e ciò che è tradizionalista. Fa fino, talvolta, presentarsi come incerti o angosciati perché non si riesce a raggiungere la verità e si vedono soprattutto le mende del cristianesimo. La dignità della persona non risiede nel crogiolarsi dentro una limitatezza enfatizzata dell’intelligenza. Quanto alla Chiesa, senza dubbio essa include i nostri difetti e le nostre mancanze, ma per fortuna non siamo noi – soltanto noi -la Chiesa: essa è anzitutto lo Spirito presente il quale fa esistere, concreto e vivo, il Signore Gesù che tutti ci raduna e ci salva a gloria del Padre. L’Eterno è più giovane dell’attualità. E il Vero è vecchio e giovane”.
Dossier: La via dell’apologetica nel terzo millennio
IL TIMONE – N. 10 – ANNO II – Novembre/Dicembre 2000 – pag. 38-39