Quando, nel 1938, il governo fascista presentò al Senato i provvedimenti di discriminazione nei riguardi degli ebrei, il senatore Benedetto Croce non si presentò nell’aula di Palazzo Madama. E non per marcare così il suo dissenso, visto che né prima né dopo (almeno fino a quando durò il regime) protestò contro quelle leggi. E neanche perché avrebbe rischiato qualcosa se avesse fatto un intervento polemico: era intoccabile, sia per il suo prestigio internazionale, sia per l’interesse di Mussolini a lasciarlo in pace, mostrando così che il suo governo non era una tirannia che non sopportava voci contrarie. In effetti, la rivista di Croce, La Critica, poté uscire indisturbata, senza alcun intervento censorio, per tutto il Ventennio.
Il duce teneva, teatralmente, un esemplare dell’ultimo numero uscito sulla scrivania a Palazzo Venezia e lo segnalava ai visitatori, soprattutto stranieri, a conferma della sua tolleranza e larghezza di spirito. Non si può neanche sostenere che, quel giorno, il filosofo non lasciò Napoli per Roma perché convinto dell’inutilità di una protesta, vista la volontà del regime di varare quelle leggi.
In effetti, almeno in un’altra occasione, pur essendo i giochi ormai fatti, aveva avuto il bisogno di dire in Senato la sua avversione, quell’avversione che evidentemente non sentì necessario esternare contro le decisioni razziali. Il silenzio distratto di quest’uomo, che pure rappresentava il meglio della cultura liberale (mi è già capitato di dire il rispetto, talvolta l’ammirazione che ho per lui, anche per la sua vita privata e la sua serietà, certamente superiore – purtroppo – a quella di qualche cattolico), quel silenzio è significativo e merita di non essere rimosso, come invece lo è stato quando si sono cominciate a fare le pagelle dei “buoni” e dei “cattivi”.
Croce, lo dicevo, in un’altra occasione aveva esercitato il suo diritto di dire ai colleghi del Senato il suo radicale rifiuto di una decisione del regime. Fu nel 1929, in occasione del Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Il suo laicismo si ribellava all’idea di venire a patti con una Chiesa che, per lui, rappresentava il massimo della reazione e dell’oscurantismo. In aula, dunque, tuonò contro accordi che definì «lo strappo con una tradizione ormai secolare di netta separazione della società laica da quella religiosa ». Se considerava traditore lo Stato, vedeva nella Chiesa soltanto interessi temporali, affermando che essa aveva «peccato contro lo Spirito, non rappresentando ormai nulla, se non un complesso di mire economiche e politiche».
Quest’acre avversione di Croce al Concordato continuerà costante (si opporrà all’inserimento di quel testo nella Costituzione italiana) e, in un piccolo libro, scritto dopo la caduta del fascismo e intitolato Per la nuova vita d’Italia, scriverà: «Nessuno può dimenticare Pio XI, che inneggiò a “l’uomo della Provvidenza”, con il quale strinse i tristemente noti accordi».
Proprio di questo vorrei parlare: chi non ha incontrato infinite volte, ripetuta polemicamente come un mantra, questa espressione («l’uomo della Provvidenza»), conferma definitiva di una sorta di patto mistico-politico tra la Chiesa e il fascismo? In realtà, qualcuno è andato alle fonti e ha chiarito (anche se invano) che si tratta di una citazione scorretta, tanto da meravigliarsi che non dei superficiali gazzettieri o dei faziosi polemisti, bensì pure il Croce, nemico giurato di ogni imprecisione filologica, abbia deformato le parole di Pio XI. Questi, in effetti, tre giorni dopo la firma dei Patti, dunque il 13 febbraio del 1929, ricevette in udienza i professori e gli studenti della giovane Università Cattolica di Milano, capeggiati dal loro “Magnifico Terrore” com’era chiamato il fondatore, padre Agostino Gemelli. Il Papa non poteva non rifarsi al grande evento appena compiuto e disse, testualmente: «Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi».
C’è una bella differenza tra un secco “uomo della Provvidenza” e un ben più sfumato «un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare», preceduto per giunta da un «forse». Come dicevo, più volte si è proceduto a questa doverosa precisazione a proposito delle parole di papa Ratti ma quasi mai, a quanto mi risulta, si sono chiariti i precedenti che spiegano una simile espressione.
Vediamo, dunque, di ricostruire la situazione.
I colloqui tra Santa Sede e Stato italiano cominciarono nel 1926 e si protrassero per anni. In effetti, il marchese Francesco Pacelli, rappresentante del pontefice, aveva come interlocutore il rappresentante di Mussolini, impersonato dal professor Domenico Barone. Questi era un grande esperto di diritto ma anche un grande esponente del liberalismo ottocentesco, per il quale la sola sovranità ammissibile era quella dello Stato. Dunque, lo Stato, magnanimo, poteva concedere garanzie di libertà, di rispetto e magari persino finanziamenti alla Chiesa, purché questa non presumesse di essere un soggetto alla pari. Ciò che atteneva alla religione, nella mentalità liberale, poteva essere solo oggetto della politica ecclesiastica statale. È la prospettiva che aveva ispirato la cosiddetta Legge delle Guarentigie, approvata dal Parlamento italiano subito dopo Porta Pia e che concedeva molto al Papa e alla Curia ma escludeva recisamente una sovranità della Santa Sede. Questa, invece, era convinta (e a ragione) che proprio soltanto una sovranità propria, un essere “alla pari” con lo Stato poteva garantire l’indipendenza nella gestione della Chiesa.
Insomma, oltre mezzo secolo dopo l’ingresso a cannonate a Roma, il rappresentante italiano era saldo in quella sua prospettiva.
E, dunque, con preoccupazione e pena del marchese Pacelli, le trattative si svolgevano in un clima di rispetto, anzi, di cortese amicizia, ma sembravano ormai definitivamente arenate. Quella volta non era il Papa ma il professor Barone, il vecchio liberale (un cattolico, tra l’altro, ma secondo la scuola risorgimentale) ad opporre un insormontabile non possumus alla richiesta di un territorio minuscolo, il più piccolo Stato del mondo, ma dentro le cui mura la Chiesa fosse davvero in casa sua, non temendo ingerenze statali e non rischiando di diventare cappellana di qualche imperatore, re o presidente della repubblica.
Dopo due anni di quegli incontri, il vecchio professor Barone morì improvvisamente. Desolazione del marchese Pacelli: non soltanto perché, dopo tanto discutere, il suo interlocutore, per quanto impenetrabile, era divenuto un amico, ma anche perché la prospettiva era di ricominciare tutto da capo con un nuovo rappresentante italiano, presumibilmente nemico anch’egli della concessione di qualunque sovranità per la Santa Sede. Ma venne il colpo di scena: invece di nominare un altro giurista che lo rappresentasse, Mussolini decise di condurre di persona la trattativa. Venendo da ben altra scuola e non avendo di certo preoccupazioni liberalesche (quelle che Pio XI chiamerà “feticci”) il Benito tolse di mezzo, con pragmatismo di politico, il divieto un po’ superstizioso di parlare di una “sovranità” della Santa Sede alla pari di quella dello Stato. Così, in pochi mesi, l’incancrenita “questione romana” fu risolta, con la firma dei documenti l’11 febbraio, cioè nel giorno anniversario delle apparizioni di Lourdes.
Questi, dunque, i retroscena: conoscendoli, sarà più agevole capire che cosa intese dire il pontefice in quel discorso da cui furono estrapolate, deformandole, le espressioni su un presunto «uomo della Provvidenza». Naturalmente, anche queste mie precisazioni non serviranno a nulla: continueremo a leggere e rileggere il mantra anticlericale.
Parlavo, sopra, dell’antisemitismo in Europa nella prima metà del Novecento, tra legislazioni razziste e persecuzioni. Una storia drammatica anche perché presenta aspetti sconcertanti e rimossi, alla pari del silenzio di Croce. Ecco un esempio tra i tanti, di cui trovo conferma (ne conoscevo già le linee portanti) in The Pilar of Fire, tradotto in italiano da Garzanti nel 1954 con il titolo La colonna di fuoco e il sottotitolo Il viaggio spirituale di uno psichiatra dall’ebraismo al cattolicesimo.
L’autore è Karl Stern, famoso scienziato tedesco, israelita costretto dai nazisti a fuggire dalla sua patria, la Germania, e approdato con fervore al riconoscimento del Cristo e alla militanza nella Chiesa. Un libro importante, tanto da avere la prefazione di Thomas Merton.
A Stern lascio la parola, per una citazione un po’ lunga ma che vale la pena di riportare: «Fu un grande paradosso che una delle più vili e crudeli persecuzioni razziali della storia colpisse gli ebrei di Germania, che erano mirabilmente integrati nella vita culturale del popolo che li ospitava. Infatti, gli israeliti tedeschi, com’è risaputo, erano i meglio assimilati e i più profondamente radicati d’Europa, ad eccezione forse di quelli italiani. Questo fatto fu disgraziatamente usato da certi gruppi. Quando parecchi ebrei orientali dovettero emigrare in seguito agli orribili pogrom di cinquant’anni fa ( l’A. allude alle esplosioni antisemite nei Paesi slavi, e soprattutto in Russia e in Polonia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ndr), taluni gruppi di ebrei tedeschi chiusero loro le porte in faccia. Come stupirsi se ciò causò molta amarezza e molti malintesi da parte degli ebrei russi e polacchi? Essi giunsero a considerare l’assimilazione e la profondità delle radici culturali degli ebrei tedeschi come una specie di perfido mascheramento, cosa che certamente non era. Come risultato della loro dolorosa esperienza, pregiudizi e risentimenti furono trasmessi a una seconda generazione e giunsero anche, con gli emigranti, in America. Così, alcuni ebrei orientali provarono qualcosa come il compiacimento per una meritata punizione, quando le persecuzioni cominciarono in Germania. Non avrebbero mai potuto immaginare che quel fuoco dovesse estendersi all’Europa orientale. Alla fine, tutti gli ebrei d’Europa furono uniti in una fiamma apocalittica, in una terribile comunione di morte».
In effetti, gli spesso ricchi o almeno benestanti israeliti dell’Europa occidentale (e non soltanto quelli tedeschi, ma anche quelli francesi e inglesi), inseriti com’erano nelle borghesie locali, nutriti di buoni studi e omogenei in tutto ai loro connazionali “ariani”, provavano disagio se non vergogna verso gli Ost-Juden , gli ebrei che si ammassavano a milioni nelle pianure dell’Est e che sembravano pidocchiosi e “impresentabili” nella buona società. Da qui, come ricorda Karl Stern, il “chiudere le porte in faccia” a quegli “straccioni” quando, chiedendo ospitalità ai correligionari, vennero a turbare il decoro borghese degli ebrei occidentali.
E, da qui, il terribile “compiacimento” di quegli esclusi quando Hitler sembrò dare una buona lezione a quei signorini assimilati e schizzinosi della Germania che non volevano avere nulla a che fare con i parenti poveri. Molti di quegli Ost-Juden erano nel frattempo emigrati in America: e si deve anche alla loro pressione se, qui, si fu molto parchi nel concedere rifugio agli ebrei in fuga dalla Germania e se negli Stati Uniti si fu, tutto sommato, meno interessati di quanto sarebbe stato necessario davanti alle notizie che giungevano da Berlino.
Insomma: anche questi episodi, sui quali si è steso il silenzio, possono aiutare ad inquadrare quali siano i pulpiti dai quali vengono le continue, sdegnose prediche contro “i silenzi” della Chiesa davanti all’antisemitismo nazifascista.
IL TIMONE – N. 33 – ANNO VI – Maggio 2004 – pag. 64 – 66