Il linguaggio delle ideologie (e dei politici) è strumentale, concepito per manipolare. Allusivo e volutamente indeterminato. Cancella e riscrive il passato, denigra il presente ed è decentrato verso il futuro
Un linguaggio allusivo e strumentale
Il linguaggio ideologico (spesso) dice molte cose, ma senza significati precisi: è un linguaggio prevalentemente allusivo, che coltiva speranze invece che dare indicazioni concrete. Esso ha un potere fascinoso, è costruito per avere il maggior numero possibile di significati, è stato concepito da alcuni strateghi culturali (epigoni degli antichi sofisti e consapevoli del grande potere persuasivo della retorica) per scatenare, prima di tutto, emozioni. Proprio per questo riesce ad essere piattaforma di proiezione di molteplici e vari desideri ed aspirazioni: essendo indeterminato, vago ed allusivo, favorisce nell’ascoltatore la coltivazione di desideri, alimenta l’immaginazione e fa sì che persino persone che vogliono un differente mondo futuro (qualunque sia questo mondo futuro) cooperino tra loro per realizzarlo.
Esso dice che il futuro e la nuova società che si produrranno – se vincerà il progetto cultural-politico-sociale proposto – comporteranno l’avvento del benessere, della libertà, addirittura della felicità. Passando dal piano della storia delle ideologie a quello della politica recente, un esempio italiano notevole è di pochi anni fa: un candidato Premier, noto uomo pubblico di lungo corso nato vicino a Reggio Emilia, durante un dibattito televisivo, disse in campagna elettorale appunto che la sua coalizione avrebbe portato la felicità all’Italia: peccato che nessun politico e nessun uomo possa mai dare la felicità, che è un dono divino (cfr., per esempio, il mio articolo sul Timone, 39, 2005, pp. 32-33 e l’articolo di Antonio Socci citato in bibliografia); piuttosto, ai cittadini i governanti dovrebbero garantire la tutela della giustizia (in particolare dei valori non negoziabili), una buona ed efficiente amministrazione, eccetera. Un altro esempio in politica è stato la campagna elettorale di Obama, che si è presentato come un messia che avrebbe reso meravigliosa l’America.
Insomma, il linguaggio ideologico promette un futuro radioso, ma non dice precisamente come arrivarci e, soprattutto, non dice in modo preciso come sarà tale futura società. Non lo dice perché, grazie all’indeterminatezza con cui indica tale avvenire felice e liberante, riesce ad intercettare e ad alimentare le speranze, le proiezioni, le aspettative individuali delle folle più eterogenee, conquistando così il consenso di un gran numero di uomini: proprio perché non descrive precisamente la società futura, bensì vi allude solamente, lascia che ciascuno se la possa immaginare come la preferisce e consente dunque che la propria proposta politico-sociale raccolga consensi sempre più ampi. Per fare un esempio illustre, è quello che è successo con il marxismo: infatti Karl Marx lascia indeterminata la descrizione della futura società comunista. Insomma, il linguaggio ideologico è teso a persuadere piuttosto che a descrivere: non dice delle cose se e perchè queste sono vere, ma le dice per ottenere un certo effetto: è meramente strumentale.
Per questo motivo, la manipolazione delle parole è una strategia fondamentale delle ideologie (come dice, notoriamente, anche un personaggio di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, di Lewis Carroll).
Il decentramento verso il futuro
Un linguaggio siffatto sposta il baricentro mentale dei soggetti verso il futuro ed è molto utile ad un progetto rivoluzionario: nella misura in cui non indica, ma solo allude, al risultato della rivoluzione, favorisce la rivoluzione stessa. Infatti, come ha scritto Vittorio Mathieu (La speranza nella rivoluzione, Rizzoli, 1972), il grande paradosso della rivoluzione è che essa può riuscire a patto di non avvenire: la rivoluzione riesce solo finché è attesa, e fallisce quando la si può indicare con un dito e con ciò la si può costringere a misurare la sua realizzazione con le promesse e le aspettative. Finché la rivoluzione non si verifica si sviluppano le aspettative e le proiezioni personali; ma, poi, nel momento in cui si afferma che la rivoluzione è attuata e che la perfetta società promessa è stata instaurata, ciascuno può commisurare i risultati con le attese e, a quel punto, la realtà disillude amaramente, come è avvenuto per tutte le promesse delle ideologie utopiche (ma si pensi, mutatis mutandis, per fare un esempio attuale in politica, alla disillusione degli americani verso il già citato Obama), che hanno spesso lasciato gigantesche macerie e cataste, talvolta immense, di cadaveri. Così, coloro che, nonostante i fallimenti, restano nostalgici di queste ideologie sono costretti a dire che la loro ideologia non è mai stata veramente applicata e che la rivoluzione deve ancora avvenire (per esempio, i veteromarxisti, interpellati sui tragici disastri del comunismo, dicono che il comunismo non è mai stato veramente messo in atto). Paradossalmente, quindi, la rivoluzione riesce finché non avviene e fallisce quando la si può misurare e dunque la strategia del rivoluzionario consiste nel concentrare l’attenzione della gente verso l’attesa di un evento sempre in procinto di effettuazione. Egli alimenta continuamente una tensione verso il futuro, un decentramento verso l’avvenire.
La cancellazione del passato
D’altra parte, un’altra tipica strategia della prassi ideologica è la cancellazione del passato, che viene sottoposto all’oblio, oscurato o perlomeno modificato (cioè riscritto). Il motivo di questo atteggiamento è il seguente: la storia dell’uomo è la storia (tra l’altro) dei fallimenti e degli insuccessi in cui l’uomo si è imbattuto quando ha voluto creare una società perfetta, quando ha tentato di produrre un mondo nuovo, di estinguere la finitezza ed il limite. La storia, cioè, è un monito: costituisce una dissuasione ad ogni progetto di palingenesi (ossia di ri-creazione) totale del mondo. Di conseguenza, il rivoluzionario cancella e riscrive il passato, rendendolo congeniale alla propria dottrina. Storicamente, infatti, i grandi sistemi totalitari e le ideologie hanno sempre cercato di riscrivere la storia (come illustra magistralmente 1984 di George Orwell).
Lo sradicamento dal presente
Infine, il linguaggio ideologico afferma che il presente è degradato perché in tal modo vuol far credere che il cambiamento sia buono, anzi necessario: bisogna fare la rivoluzione e bisogna cambiare il presente. Così, non specificando mai, ma alludendo e caricandosi di speranze sottintese, il linguaggio ideologico porta il proprio contributo allo sradicamento dal presente ed all’attesa della rivoluzione salvatrice.
Naturalmente, questo nostro discorso di demistificazione del linguaggio ideologico non vuol essere un invito al quietismo, al fatalismo, all’immobilismo. Se in un società ci sono degli aspetti negativi, deteriori e/o malvagi, bisogna cercare energicamente di cambiarli. Ma chi promette il paradiso in terra promette qualcosa di irrealizzabile e probabilmente sta cercando di manipolarci. Inoltre, chi vive solo proiettato nel futuro e disprezzando continuamente il presente, non soltanto vive male e scontento, incapace di godere quanto (poco o tanto) di positivo il presente gli offre, ma inoltre viene quasi sempre deluso anche quando il futuro agognato diventa presente, dato che le sue aspettative erano enormi.
IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 30 – 31
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