Karl Raimund Popper (1902-1994) è uno tra i più significativi pensatori del XX secolo; i suoi interessi, rivolti principalmente al problema del valore della conoscenza scientifica e alla filosofia politica, si sviluppano a stretto contatto con le tesi del neopositivismo (cfr. box) e sono influenzati in maniera decisiva dalle teorie di Albert Einstein (18791955).
Il neopositivismo logico del Circolo di Vienna aveva confinato la filosofia a un ruolo marginale riducendo ogni analisi filosofica ad un’attività di chiarificazione del linguaggio, in base all’idea che un enunciato ha senso solo se il suo contenuto può essere verificato dall’esperienza; diversamente deve essere considerato insensato. Gli enunciati metafisici, come ad esempio: «Dio è il creatore del mondo», oppure: «il fine dell’uomo è la beatitudine», per i neopositivisti sono un insieme di parole senza senso, perché il loro contenuto non può essere tradotto in elementi verificabili. Per il neopositivismo il fondamento della conoscenza vera è la verificabilità di un asserto, perciò solo la scienza è fonte di conoscenza vera, perché solo le sue teorie possono essere verificate empiricamente.
D’altro canto, Einsten aveva formulato le proprie teorie scientifiche non come leggi da verificare, ma come ipotesi che potevano essere smentite dall’esperienza, avvalorando così l’idea che una teoria scientifica è solo una congettura e in nessun caso può avere la pretesa di essere una verità assoluta.
Da ciò Popper trae l’idea che il criterio per individuare quando una conoscenza è scientifica non sia il principio di verificazione, ma, in polemica col neopositivismo, il criterio di falsificabilità. Questo criterio dice che un asserto è scientifico solo se può essere falsificato da controlli sperimentali e che, per quanto una teoria possa essere controllata e confermata dai fatti, non si può in nessun modo escludere che possa essere confutata in seguito. L’esperienza perciò non prova la verità, cioè non può verificare definitivamente una teoria, ma stabilisce solo che una determinata ipotesi è plausibile finché non viene falsificata.
L’errore del verificazionismo, per Popper, nasce dalla convinzione che con il processo induttivo si possa ricavare una legge universale (cioè una conoscenza valida in modo assoluto) da casi particolari. Questa critica all’induzione è descritta in modo scherzoso ed efficace dalla storiella del tacchino induttivista, raccontata da Bertrand Russel (1872-1970): un tacchino osservò che nell’allevamento in cui si trovava gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino e che questo accadeva tutti i giorni della settimana con qualsiasi tempo. Alla fine, soddisfatto dalle sue osservazioni, questo tacchino inferì la legge:«mi danno il cibo tutti giorni alle 9 del mattino». Purtroppo per lui la sua conclusione si dimostrò falsa la vigilia di Natale quando, invece di essere nutrito, fu sgozzato.
Secondo Popper, questo dimostrerebbe che le teorie non derivano da un procedimento che va dall’esperienza al concetto (induzione), ma solo da un procedimento contrario (la deduzione) che va dalle idee al controllo empirico: infatti la deduzione, partendo da un giudizio generale, universale, giunge a conclusioni particolari.
Coerentemente con il proprio pensiero Popper riconosce un certo valore alla metafisica. Il criterio di falsificazione infatti non ha lo scopo (diversamente dal principio di verificazione) di distinguere le teorie che hanno senso da quelle che non l’hanno, ma di delimitare, tra le teorie che hanno senso, le teorie scientifiche dalle nonscientifiche.
Perciò, per il falsificazionismo la metafisica non è un insieme di chiacchiere insensate, essa ha un valore cognitivo, gli uomini ne comprendono il significato e sono perciò in grado di scegliere le teorie che ritengono soddisfacenti o accettabili. Popper è convinto che la filosofia sia necessaria e che essa abbia come oggetto la realtà, per questo si definisce un realista del senso comune, intendendo con ciò che è possibile capire senza avere una comprensione completa del concetto. Contemporaneamente, tuttavia, ritiene che, occupandosi di teorie il cui contenuto non può essere controllato empiricamente, la filosofia si collochi oltre il confine delle conoscenze scientifiche. Il suo valore riguarderebbe la capacità di orientare e sostenere lo sforzo della conoscenza con una funzione regolativa.
Ma, in conseguenza della critica all’induzione, Popper non riconosce al pensiero la capacità di intuire e formulare i principi primi e universali dell’essere, quali i principi di non contraddizione, di causalità o l’idea di persona come soggetto libero, e di «far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 4). Insomma, a Popper va riconosciuto il merito di aver affermato l’esistenza e la conoscibilità di una realtà indipendente dal soggetto. Tuttavia, pur prendendo le distanze dal Circolo di Vienna, il realismo di Popper è mutilato, esso è limitato da una concezione della ragione capace d’inventare teorie e di operare deduzioni, ma non di svolgere le funzioni intuitivo-percettive proprie dell’intelletto, funzioni su cui si fonda l’induzione. Paradossalmente, si può dire che il fallibilismo vale per le teorie scientifiche, perché esse sono delimitate dalle capacità di misurare e comprendere della ragione, ma non vale per la metafisica che si fonda sulle funzioni intuitive dell’intelletto e perciò è in grado di formulare principi e asserzioni validi per sempre.
Come osserva san Tommaso d’Aquino, la riflessione filosofica permette di discernere, al di là delle diverse concezioni della vita e delle diverse culture, «non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva».
Il neopositivismo (o «positivismo logico» o «empirismo logico») inizialmente si sviluppa presso il «Circolo di Vienna», un gruppo di scienziati e filosofi che si incontrano periodicamente tra il 1907 e il 1914 e tra il 1924 e il 1938. Il loro manifesto programmatico, scritto nel 1929, è intitolato La concezione scientifica del mondo; le principali finalità espresse sono:
1) l’unificazione della scienza;
2) la distruzione della metafisica;
3) lo sviluppo del linguaggio formale e la riduzione della filosofia a processo di chiarificazione linguistica.
Il neopositivismo, come il positivismo ottocentesco, afferma il primato della ragione scientifica. Si differenzia dal positivismo per l’attenzione all’aspetto logico-linguistico della scienza e per la forte sottolineatura empiristica. Per l’empirismo l’unica conoscenza accettabile è quella basata sui dati immediati dei sensi a cui tutte le teorie devono poter essere ricondotte. Il principio di verificazione è la procedura con cui si accerta la riducibilità di un enunciato ai dati osservabili.
«Il programma popperiano è più limitato, più “debole” ed in un certo senso più distruttivo di quello neopositivistico, poiché se è indubbio che in esso non si incontra la secca disistima del Circolo di Vienna nei confronti della metafisica come discorso privo di senso, è altrettanto vero che i neopositivisti credevano nella scienza come fonte di verità, mentre Popper rende soltanto regolativo il suo concetto, nel senso che nel realismo critico neppure la scienza conosce in modo pieno e reale, se non appunto asintoticamente e attraverso un’approssimazione infinita».
(Vittorio Possenti, Razionalismo critico e metafisica: quale realismo? Morcelliana, 1994, p. 128).
Antonio Livi, Il neorazionalismo, in La filosofia e la sua storia, Società Editrice Dante Alighieri 1996, vol. III/2, pp. 885-900.