Essenziale è ciò che nessun altro può fare: assolvere i peccati e celebrare la messa. Questo è il compito primario del sacerdote. Intervista a Monsignor Mauro Piacenza
Eccellenza, un «anno sacerdotale» è certamente prezioso per richiamare l’attenzione dei cristiani e del clero stesso sulla dignità di un ministero fondamentale. Però, d’altra parte, rischia per l’ennesima volta di dare l’impressione di una Chiesa anzitutto «clericale»…
«Ritengo che tale rischio sia del tutto escluso, sia dall’intenzione sia dalla reale ricezione dell’anno sacerdotale. Fondamentalmente per due ragioni. La prima è costitutiva e vede nel sacerdozio ministeriale non certo appena una semplice funzione, o superfunzione, nella Chiesa, ma una delle sue stesse note: noi crediamo la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica – appunto! – e il sacerdozio è proprio questa “apostolicità” e risulta dunque totalmente infondata la presunta “rivalità” – o peggio opposizione – tra “laici” e “clero”, segno di un’indebita trasposizione di certa “lotta di classe” all’interno del corpo ecclesiale, oltre che di una non piena comprensione della realtà divino-umana stessa della Chiesa di Cristo. La seconda ragione, poi, è che l’anno sacerdotale, che mira ad un rinnovamento spirituale del clero, coinvolge l’intero popolo di Dio nella preghiera per i sacerdoti. Per conseguenza, a meno che non si voglia affermare l’inutilità della preghiera, è esclusa ogni tentazione clericale. Senza sacerdoti, la Chiesa semplicemente non esiste! Esistono, al più, comunità cristiane o ecclesiali, ma non la Chiesa di Gesù Cristo».
Negli ultimi decenni siamo passati da una concezione «mistica» del sacerdozio («Dopo Dio, il sacerdote è tutto», diceva il Curato d’Ars) a un minimalismo di tipo sociologico: il prete inteso come una specie di «lavoratore dipendente» dalla comunità. Dove sta il giusto mezzo?
«Un sacerdote che non fosse anche un mistico non sarebbe un “buon pastore”. Essenziale è intendersi su cosa significhi realmente “mistico”. Il mistico non è un uomo avulso dalla realtà o dal proprio contesto, ma è colui che, per grazia, è capace di “vedere oltre”, “vedere dentro” (intus-legere); è colui che ha una profonda intelligenza delle cose, sempre alla luce di Dio e del suo Vangelo, e quindi si tratta della visione “vera”. In questo senso non è possibile essere pastori se non si è mistici. Certamente è da evitare ogni “fuga” dalla realtà, perché sarebbe contraria al principio stesso dell’incarnazione del Verbo, come è da evitare ogni appiattimento acritico sul mondo, inteso in un’inesistente situazione irenica, quasi fossimo ancora nel paradiso terrestre e non ci fosse stato il peccato originale. Ovviamente in nessun caso il sacerdote è un “delegato” della comunità: il suo mandato viene da Dio per mezzo della Chiesa e la sua potestà è divina, non umana. Non viene dal basso ma dall’alto».
Il sacerdozio è un servizio non un potere, si ripete continuamente. Taluni laici in parrocchia sperimentano spesso il contrario: ovvero un’interpretazione del ministero di «guida» quasi fosse una sorta di monarchia assoluta. L’ultima parola è sempre e comunque del parroco. È giusto?
«Contrapporre servizio e potere è esattamente l’errore a cui mi riferivo prima. Il servizio ministeriale si esercita per mandato divino e tale mandato è anche una vera e propria sacra potestas che abilita un uomo ad assolvere i peccati in nome di Dio e a consacrare il corpo e il sangue del Signore, ripresentando l’unico salvifico sacrificio della croce di Cristo. In questo senso esiste una innegabile gerarchia tra clero e laici. Dal punto di vista pratico, poi, è necessario ricordare che, per espresso volere della Chiesa, tutti gli organismi di partecipazione, dai Sinodi fino ai consigli pastorali parrocchiali, hanno valore consultivo e non deliberativo. È poi sempre l’autorità superiore a sancire quanto proposto. In tal senso anche nelle parrocchie, poiché il compito di esercitare il ministero è del sacerdote parroco, il quale è appunto pastore proprio di una comunità; è normale che sia lui ad assumersi la responsabilità delle decisioni ultime, le quali ovviamente devono sempre essere in piena comunione con il Papa e con il vescovo in comunione con lui.
Certamente se ci si riferiva a decisioni di altro tipo, quali le vie da percorrere in una processione o il tipo di fiori con cui addobbare la Chiesa, allora siamo su un altro piano».
La gente – anche i non credenti – in genere si aspetta moltissimo dal prete; persino troppo, vista la pressione cui sovente i poveri sacerdoti vengono sottoposti. Ma secondo lei cos’è essenziale, ciò a cui un reverendo non dovrebbe abdicare mai?
«Essenziale è ciò che nessun altro può fare: assolvere i peccati e celebrare la messa. Essenziale, in una parola, è ciò che è specifico del ministero sacerdotale, nella declinazione dei classici tria munera («tre doni»): insegnare la vera dottrina, le verità di fede e di morale, guidare le coscienze al discernimento del vero bene, anche attraverso la direzione spirituale; santificare nella celebrazione dei divini misteri, che hanno un valore non solo personale ed ecclesiale, ma anche cosmico, come ricordato più volte dal Santo Padre; governare, cioè guidare le comunità e gli uomini sulla via del bene e della vera pace, alla scoperta del significato autentico della propria esistenza, che è la persona divino-umana di Gesù di Nazareth Signore e Cristo. Infine non mi spaventerei della “domanda” dei fedeli laici, perché essa è segno di un dato antropologico universale: l’uomo ha bisogno di modelli di riferimento e di suoi “simili” ai quali guardare, soprattutto nel rapporto con il Mistero.
La grande pretesa dei fedeli spesso è un monito per i sacerdoti che spinge alla perfezione sempre maggiore della carità pastorale».
Le richieste di «aggiornamento» del sacerdote sono le più fantasiose: dall’abolizione del celibato alla chiusura dei seminari, alla scelta di uomini sposati, eccetera. Su una miglioria però si può essere d’accordo: la necessità di superare gli steccati storici ancora esistenti tra il popolo di Dio e i suoi ministri. Lei che ne pensa?
«Gli unici “steccati” che conosco sono quelli presenti nella mente e nel cuore degli uomini, fedeli laici o sacerdoti che siano, non ancora pienamente convertiti, non continuamente rinnovati dalla grazia sacramentale della riconciliazione e, perciò, induriti in una presunzione di autonomia che non ha mai riguardato l’autentica dottrina della Chiesa. Il popolo di Dio semplicemente non esisterebbe senza sacerdoti e viceversa, perché i sacerdoti sono “presi” da Dio, tra il popolo, come ricorda la Lettera agli Ebrei.
Il rinnovamento interiore, poi, è ben altra cosa dall’aggiornamento: il primo riguarda il rapporto con Dio e, per conseguenza, con la realtà e i fratelli, il secondo potrebbe ridursi a un’assimilazione acritica delle categorie del mondo, senza un preventivo e adeguato discernimento. Non sono mai le strutture a dover cambiare, ma le persone. Sarebbe sufficiente che in ogni diocesi ci fosse un solo sacerdote santo, per modificare radicalmente, e talvolta per secoli, la storia di quella Chiesa particolare e di quella nazione. Si pensi a san Giovanni Maria Vianney nella Francia immediatamente post-rivoluzionaria.
Quando il sacerdote è padre e pastore, il popolo di Dio non ha bisogno di rivendicazioni pseudo-sindacali, perché si riconosce nella figliolanza, e quando il popolo è docile, il sacerdote non ha bisogno di alcun atteggiamento di durezza. Sul celibato mi pare che il Papa si sia nuovamente espresso lo scorso 8 novembre a Brescia in modo assolutamente inequivocabile. Il celibato è un dono di inestimabile valore e sta nella logica dell’amore. “Chi può capire, capisca”!».
Dossier: Sacerdote per sempre
IL TIMONE N. 88 – ANNO XI – Dicembre 2009 – pag. 42 – 43
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