Posto da incubo, la Cina, che – con qualcosa come un miliardo di abitanti in più degli Stati Uniti – è il più popoloso Paese del mondo. Posto terribile, perchè la tirannia politica travestita ancora, grottescamente, da “comunismo”, si somma al liberismo economico più feroce, dove i lavoratori, senza sindacati né diritti, hanno solo il dovere di faticare il più possibile per arricchire le aziende. Private o di Stato che siano, ma tutte voraci e insaziabili. Alcuni milioni di oppositori del regime sono nel Laogai, il sistema concentrazionario che non ha nulla da invidiare a quello dei lager e del gulag, i condannati a morte sono più di 10.000 all’anno e lo Stato specula su questi cadaveri, vendendo gli organi “freschi” per i trapianti dei ricchi asiatici od occidentali. Il disprezzo per la vita regna sovrano, con un programma allucinante di aborti, a cominciare dai feti di femmina, e con una tale noncuranza delle condizioni ambientali che l’aria delle metropoli è la più inquinata del mondo e i grandi fiumi non sono che fogne per veleni. Se poi la convenienza economica, intesa nel senso più arcaicamente “capitalista”, suggerisce di allagare regioni grandi come un Paese europeo costruendo dighe colossali, si cacciano milioni di disgraziati dalle loro case e si fanno sommergere le testimonianze della storia e dell’arte. Eppure, questo orribile Leviatano non è inserito nella lista degli “Stati canaglia” compilata, a suo insindacabile giudizio, dal governo americano, la guerra la fanno a un tirannello – al confronto – come l’iracheno Saddam e davanti all’edificante tribunale dell’Aja per i crimini politici vengono trascinati politici e generali in disgrazia della piccola e impotente Serbia. Il fatto è che la Cina ha centinaia di testate atomiche e la possibilità di farle arrivare a destinazione ed è, inoltre, un formidabile esportatore di merci a basso costo, grazie allo schiavismo lavorativo che pratica, ma è anche un ghiottissimo mercato per le merci di pregio americane, europee, giapponesi. Così, l’ipocrisia abituale impone non solo di non attribuire all’ex Celeste Impero l’etichetta di “canaglia”, ma di moltiplicare le ossequiose delegazioni politiche ed economiche. Eppure, la classe politica al potere a Pechino non è in alcun modo legittimata da quella mitica “democrazia” all’anglosassone che Bush proclama di volere esportare con i bombardamenti e le conseguenti occupazioni militari: i gerarchi cinesi basano il loro illimitato potere richiamandosi a una “legittimità” data loro dal regime di cui fu a capo Mao Zedong, come si scrive ora per il vecchio Mao Tse Tung.
Il problema è proprio quest’uomo, di cui l’anno passato è ricorso il trentesimo anniversario dalla scomparsa. E giusto l’anno scorso le edizioni San Paolo hanno pubblicato un impressionante Libro rosso dei martiri cinesi che non sembra avere avuto l’eco mediatico che meritava. Il vecchio tiranno continua a ricevere l’omaggio dei devoti su quella piazza Tien An Men che vide il massacro degli studenti, il suo ritratto campeggia sui grandi viali di Pechino e di ogni altra città, la Nomenklatura al governo – pur artefice di quel liberismo selvaggio che dicevamo che è il contrario esatto della predicazione del cosiddetto Grande Timoniere – continua a fingere di venerarne la memoria. Ma ciò che è peggio è che anche in Occidente non si è ancora verificato quanto il Mao vero, non quello del mito, merita in pieno: il suo ingresso, cioè, nella galleria dei grandi criminali del XX secolo, accanto all’inflazionato Hitler e allo Stalin anch’esso di rigore, ma solo dopo che la stessa Urss lo ha rinnegato. Il corrispondente de la Repubblica da Pechino ha scritto in un libro recente che c’è ormai accordo tra gli storici: il regime maoista ha provocato, da solo, un bilancio di morti tra i 70 e gli 80 milioni. La maggioranza di queste vittime, fu durante quella “rivoluzione culturale” che infiammò di entusiasmo i giovani occidentali nel Sessantotto e poi negli anni successivi. Quell’entusiasmo era fomentato anche dai reportage degli intellettuali europei – anche, forse soprattutto, italiani – egemoni nella cultura del tempo e che davano della Cina e del suo cosiddetto “comunismo buono” un ritratto che era il contrario della realtà. Accanto ai Moravia e a tanti altri – non mancò il contributo sovreccitato, secondo il suo stile imbarazzante, di Oriana Fallaci – tra i più accesi e ispirati cantori del maoismo c’era quel Tiziano Terzani che poi, passata l’ubriacatura, si trasformò (anche nella tunica bianca e nel gran barbone, esso pure candido) in un santone, in un guru di sapienze gnostiche e i cui libri diventarono best seller. Anche per colpa, sospetto, di tanti lettori cattolici. Cattolici che sanno tutto delle malefatte di Hitler e soci, che grazie ai Solzenicyn qualcosa sanno degli orrori dell’Arcipelago Gulag ma che troppo spesso ignorano quale sia stato – e tuttora in parte sia – il martirio dei credenti nella Cina fondata da Mao Zedong. Migliaia e migliaia di martiri dei quali, troppo spesso, ignoriamo anche il nome o con i quali, addirittura, non abbiamo voluto avere nulla a che fare: non dimentico (ero allora a Torino, in cronaca) il cardinal Michele Pellegrino che, entrando nell’aula magna del seminario subalpino, fu accolto dai seminaristi in piedi che scandivano eccitati “Mao-Tse-Tung!”. L’arcivescovo, invece di far cacciare subito a pedate quegli imbecilli, chiudendo un seminario ridotto in simile stato si mise – come i tempi imponevano – a “dialogare” con loro.
E poiché non si combatte mai una religione se non per edificarne un’altra, significativo quanto racconta nella sua autobiografia un missionario, padre Giovanni Wong, sul-le giornate del cinese medio quando dominava il “Grande Timoniere” che ha ancora oggi ammiratori anche tra noi, magari tra qualche frate: «Dalla sveglia, coatta, del mattino fino al riposo, anch’esso stabilito dai regolamenti, si era costretti a radunarsi sette volte al giorno di fronte all’immagine di Mao, inchinandosi in segno di venerazione. Davanti a quel ritratto eravamo obbligati a chiedere perdono delle nostre colpe sociali gridando: “Noi siamo tutti colpevoli!”. E, alzando le teste, gridavamo tre volte “Viva Mao!”, augurandogli lunga vita». Per chi non ci stava, ovviamente, il Laogai. Del resto, tra la documentazione fotografica del Libro rosso dei martiri cinesi ci so-no le immagini della cattedrali cattoliche saccheggiate, dove il faccione del Grande Timoniere è appeso sopra quanto resta dell’altar maggiore. Chissà dove sono, ora, gli eroici “maoisti” del seminario del cardinale arcivescovo di Torino.
Sviluppo sostenibile?
Per stare a comunisti ed affini. Quella troppo nota e troppo potente organizzazione che è il WWF, in questi mesi di bufale “climatiche”, di catastrofismi su presunti quanto probabilmente inesistenti “riscaldamenti” o “raffreddamenti” atmosferici, ha fatto un’incredibile dichiarazione. Ha detto cioè che tra i pochi Paesi che si avvicinano al leggendario, virtuoso “sviluppo sostenibile” c’è la Cuba di Castro. Troppo facile la replica: tutti sanno che la miseria inquina meno della ricchezza. I morti di fame, poi, non inquinano per niente, anzi fertilizzano il terreno. Ma in realtà, dietro le sciocchezze di quel WWF caro a Carlo d’Inghilterra continua ad agire un mito menzognero. Quello, cioè, secondo il quale una società collettivista sarebbe più rispettosa dell’ambiente di una capitalista. Lo Stato, dunque, avrebbe maggior attenzione per la natura dei biechi padroni delle ferriere.
Ebbene, proprio in questi giorni un Istituto indipendente ha stilato una statistica inquietante, quella dei luoghi del pianeta più avvelenati dagli uomini. Tra i primi dieci della lista, la metà sono in terre che facevano parte della Unione Sovietica. Ai primi due posti, Chernobyl, in Ucraina, con la catastrofe della centrale nucleare, vecchia, mal costruita, priva di manutenzione, controllata da personale incompetente o alcolizzato. Segue Dzerzhinsk, in Russia, con acqua e suolo definitivamente avvelenati dalla industria delle armi chimiche per l’Armata Rossa. Ecco poi Mailuu-Suu, in Kirghizistan, già sovietica, con lo sfruttamento all’aperto, senza quasi alcuna precauzione, di una miniera di uranio. Seguono Norilsk, Russia, industria pesante per le forze armate e Rudnaya Pristan, ancora in Russia, con piombo, mercurio, amianto e altre piacevolezze. Nel catalogo dei dieci luoghi devastati per sempre, c’è anche la cinese Linfen, con una schiavistica attività di raccolta del carbone all’aperto. Gli altri quattro posti appestati sono tutti nel Terzo Mondo, in Paesi che sarebbe difficile definire “capitalisti”, almeno in senso occidentale. “Sviluppo sostenibile”, insomma, secondo il WWF: proprio come da Fidel Castro.
Anche quest’anno – per la sessantaduesima volta – ecco le solite celebrazioni per quella che viene chiamata la “Liberazione” per antonomasia. Ma non ha torto Rocco Buttiglione che ricorda come la democrazia in Italia non sia nata il 25 aprile 1945, bensì giusto tre anni dopo, il 18 aprile 1948, con l’elezione il cui peso fu portato essenzialmente dai cattolici riuniti nella Democrazia cristiana. Nel 1945 ci fu la vittoria (degli Alleati, non nostra) sul nazifascismo; ma nel 1948 ci fu la vittoria (tutta italiana, questa) sul comunismo guidato dall’uomo di fiducia di Stalin, Togliatti. Alla fine della guerra, una Liberazione parziale, da un solo totalitarismo, quello nero; tre anni dopo, la Liberazione dalla minaccia dell’altra tirannide, quella rossa. Eppure, per nessun 18 aprile ho ricordo di alcuna celebrazione, almeno ufficiale. Alcide aveva ragione e Palmiro torto: ma questo è meglio non dirlo per non essere tacciati di vecchio, anacronistico, inelegante “anticomunismo”.
Scoppia il caso delle spie “clericali” al servizio del defunto regime comunista polacco. Mi meraviglio della meraviglia: era il segreto di Pulcinella, si sapeva bene che una parte, assai minoritaria, del clero polacco simpatizzava per il regime comunista. Quei preti avevano addirittura un movimento, detto Pax, tutto per loro. Del resto, chi conosce la storia della Chiesa sa che – essendo preti, frati, suore persone come tutti – di fronte ad ogni persecuzione c’è una percentuale di lapsi, di caduti, come venivano chiamati nei primi secoli cristiani. Per loro furono addirittura elaborate apposite tesi teologiche.
Non c’è, dunque, da scandalizzarsi troppo. Se fossi moralista mi scandalizzerei per altro. Per esempio, per l’accordo firmato nel 1969 dalla Federazione della chiese protestanti della Germania dell’Est con i governanti di quel Paese sedicente “democratico”. Leggo nel preambolo: «La nostra Federazione di cristiani non è in margine al socialismo né è in opposizione, bensì è all’interno di questo». Qui non si è ai casi individuali, clandestini, da servizio segreto. Qui si è alla resa convinta, alla collaborazione solidale.
A proposito di protestanti. Come ben sanno i lettori, non sono fautore di un ecumenismo dove i cattolici riconoscano solo le ragioni degli altri. Non esiste dialogo se non nella verità: è la verità è che nessuno è innocente davanti a Dio. Così, confrontiamoci pure sulla inquisizione spagnola o romana, riservandoci però il diritto di fare altrettanto su quella calvinista, luterana, anglicana che non rifuggirono affatto dall’uso del patibolo per i dissidenti. Se si tira in ballo la faccenda dello schiavismo, sarà opportuno ricordare che – in Africa – la questione riguardò soprattutto le tribù indigene della costa, neri che con incursioni catturavano i neri dell’interno; interessò i “grossisti” arabi, musulmani, che cedevano il frutto delle razzie agli armatori calvinisti, inglesi e olandesi, che procedevano al trasporto in Nord America; qui, il business riguardava altri grossisti, poi venditori al minuto e infine, proprietari terrieri che mettevano i sopravvissuti al lavoro nelle loro proprietà. Tutti, pii membri di comunità riformate.
Cose che, da qualche parte, mi pare di avere già raccontato. Ciò che non avevo sinora segnalato era che non è opportuno tacere – e sempre e solo, s’intende, per amore di verità e di completezza dell’informazione – di fronte a un’altra accusa ricorrente, quella di avere istituito, dopo il Concilio di Trento, un Index Librorum Prohibitorum. La conferma, insomma, dell’oscurantismo cattolico, e solo cattolico. Non si dimentichi al-lora che, già nei primi anni della Riforma, nel 1545, un erudito protestante di Zurigo, Konrad von Gesner, si incaricò di compilare la Bibliotheca Universalis con ben 12mila titoli, ai quali se ne aggiunsero altri 15mila nella successiva edizione del 1555. Tutti libri segnalati perchè i pii lettori riformati se ne astenessero, considerando peccato anche solo il loro possesso.
Insomma, siano più prudenti, certi predicatori: non c’è pulpito senza tarli e crepe.
Adesso, poi, c’è una novità importante che riguarda quella “caccia alle streghe” che fa parte anch’essa del consueto rosario di accuse al cristianesimo e, in particolare, al cattolicesimo. Si sa che, nel suo Codice da Vinci, Dan Brown ripete più volte, come una verità storicamente accertata, che la Chiesa è responsabile della morte sul rogo non di migliaia ma di molti milioni di donne. E invece ora, per la prima volta, sappiamo a quanto ammonta in realtà quella cifra: in 350 anni, le vittime furono circa trentamila. Numero terribile, s’intende, anche se inferiore di almeno cento volte alle fantasie non solo di un pataccaro come Brown ma anche di storici qualificati. Chi ha fatto i conti, comunque, ha scoperto che tra il 1450 e il 1750 – inizio e termine della “caccia” – in Italia ed in Spagna le cosiddette “streghe” giustiziate furono soltanto 300, in Portogallo 10, in Irlanda 4, mentre la Francia registrò 600 casi. La grande massa (tra le 15 e le 25mila vittime) è quella di cui è responsabile la Germania mentre la pic-cola Svizzera contribuì al tragico bilancio con 3.000, la Scandinavia con 2.000, la Scozia con 1.000. Si ha cioè conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto o nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Fu infatti questa, con il suo rigore, con la sua applicazione di leggi severe ma precise, con il suo rifiuto della superstizione a frenare il popolo che voleva essere liberato dalla presenza demoniaca che era temuta nel fenomeno stregonesco. Va inoltre sfatato un altro pregiudizio sul quale campano i Dan Brown e, con lui, le ideologhe del femminismo: la “caccia” non era affatto rivolta contro il sesso femminile in quanto tale, l’esame dei processi mostra che accanto alle “streghe” furono assai numerosi gli “stregoni”. Non si trattò dunque di una persecuzione delle donne ma di un’ossessione per il diabolico in quanto tale, personificato sia in femmine che in maschi.
Questi dati non sono che alcuni degli infiniti messi a disposizione dai quattro grossi volumi di una Enciclopedia della stregoneria nella Tradizione occidentale appena pubblicata, per ora solo in inglese, da un’equipe di insospettabili università americane.
Càpito, in Internet, su una visione zenitale, dal satellite, del centro di Milano e mi accorgo di “qualcosa” che non so se sia mai stato notato. Si sa che, subito dopo l’Unità, non potendo disfarsi del duomo milanese si cercò almeno di esorcizzarlo. Aprirgli tutto attorno una gran piazza – come fu subito deciso – non significava esaltarlo ma sminuirlo, come scrisse lo stesso Carlo Cattaneo, pur niente affatto devoto. In effetti, quella “gran macchina” di marmo (per dirla con Manzoni) troneggiava su piccole case, rivelando tutta la sua imponenza, mentre nel vuoto delle demolizioni, fiancheggiato da nuovi palazzi imponenti, era ridotto, per la vista, a dimensioni ben minori. Ma aprire un grande slargo significava anche poter piazzare davanti alla facciata, nascondendola in parte, una grande statua bronzea, in posa di trionfatore a cavallo, del re che aveva tolto Roma al Papa. A quello stesso Vittorio Emanuele II che aveva umiliato Pio IX, era dedicata la grandiosa galleria che, con il tetto di vetro da cui entrava a torrenti la luce, mostrava il contrasto con la penombra dell’interno della cattedrale, non a caso simbolo dell’oscurantismo.
Come si sa, il progetto e la realizzazione del colossale sventramento del centro di Milano furono affidati all’architetto Giuseppe Mengoni, ovviamente massone esplicito e militante. Ebbene, esaminando la ripresa dall’alto su Internet, mi accorgo che la croce formata dalla pianta della galleria è in realtà una croce rovesciata. Il braccio che tende a Nord, verso piazza della Scala, è più lungo di quello che tende a Sud, verso piazza del Duomo. In questo modo, il braccio orizzontale è fatto scivolare verso il “piede” della croce. E questa asimmetria è senza una necessità tecnica, visto che il quartiere antico era stato tutto raso al suolo, ottenendo un enorme spazio vuoto dove l’architetto era libero di agire. Si scelse dunque a ragion veduta proprio quella pianta: così, sulla cattedrale fu fatto incombere una gigantesca croce rovesciata che è da sempre, per la simbologia, un insulto e una sfida al cristianesimo, un segno addirittura diabolico, il disprezzo per il “nume semitico” che alla croce era stato appeso. Così, l’esorcismo massonico era stato celebrato.
IL TIMONE – N.63 – ANNO IX – Maggio 2007 pag. 64-66