È stata una dei più grandi pianisti del Novecento. Si è battuta per la libertà della Chiesa e dell’arte, sfidando anche il sanguinario dittatore
A quarant’anni dalla morte (il 19 novembre 1970), la figura di Marija Judina, una dei più grandi pianisti del Novecento, sta riemergendo, sia in Russia sia anche per il grande pubblico in Occidente, dall’emarginazione in cui l’aveva relegata la cultura ufficiale, timorosa della sua indipendenza di vedute e del suo temperamento indomito che la spingevano continuamente a battersi in prima linea per la libertà della Chiesa e dell’arte, le sue due “stelle comete”.
Il segreto del suo fascino, della sua capacità di parlare anche all’ascoltatore di oggi sta forse, innanzitutto, nella sua percezione della musica come un “oltre”, come una finestra schiusa sul Mistero che lei rincorre per tutta la vita. Tra la Judina e i suoi ascoltatori – dirà Evgenija Otten, sua grande amica e madrina di battesimo – si instaura un «dialogo, un concorso di creatività» in cui la genialità dell’artista ha il dono di saper evocare «la capacità conoscitiva più preziosa che è insita in noi, nell’esecutore come nell’ascoltatore, e cioè lo stupore». «Facendo irruzione con la sua potenza spirituale nella percezione dell’ascoltatore, gli fa scoprire potenzialità che erano sconosciute a lui stesso». Il genio è rivelatore dell’umano, consente alla persona di «scoprire dentro di sé qualcosa che non sapeva di custodire. È questo il compimento del dialogo».
I suoi, insomma, non sono semplicemente dei concerti, e non solo perché alterna ai pezzi musicali la recitazione di poesie dei suoi autori preferiti, di regola personaggi messi al bando dal regime (in particolare Pasternak). Per il suo stesso modo di porsi essi sono una testimonianza, anzi una «sacra rappresentazione». Lo ricorda un critico musicale: «Quando questa donna, dalla pettinatura liscia che le incorniciava il volto assorto, saliva sulla scena in un lungo abito scuro, austero, senza guardare nessuno, immersa nel suo mondo interiore, si sedeva al pianoforte, tergeva con un fazzoletto le mani e la tastiera e poi faceva una pausa prolungata, sembrava un rito di preparazione a qualcosa di importante, che superava i criteri di ordine puramente estetico per far emergere in primo piano un pathos morale. Proprio così venivano recepiti i suoi discorsi, la sua parola di testimonianza dagli ascoltatori. Si attendevano una catarsi purificatrice e non venivano delusi in quest’attesa».
Un fascino a cui, secondo un racconto ormai entrato nella leggenda, non si sarebbe sottratto neppure Stalin, colpito dalla sua esecuzione di un concerto di Mozart (la Judina in realtà lo interpretava come un «requiem» per le vittime dei lager). All’illustre ammiratore, che – nel racconto di Šostakovič – le mandò in dono una cifra strabiliante per l’epoca, la Judina rispose senza esitazioni: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovič [Stalin]. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia». Ciò che colpisce non è semplicemente il suo coraggio, ma la sua speranza nella possibilità di redenzione di ogni essere umano, perfino di un sanguinario dittatore di cui conosceva bene i crimini, contro i quali del resto si batté per tutta la vita.
È una figura scomoda, irriducibile a schemi. La sua vicenda umana si intreccia con il dramma attraversato dalla Russia: come molti suoi contemporanei, vive le speranze e le attese suscitate dagli avvenimenti del febbraio 1917, per qualche tempo abbandona addirittura il conservatorio per darsi corpo e anima alla causa rivoluzionaria, ma ben presto scopre la vera “rivoluzione” nella fede cristiana. Leggiamo nel suo diario giovanile, nel settembre 1917: «La fede? Sì! L’arte è solo un cammino, solo un anello di congiunzione. Lo scopo ultimo di ogni cammino interiore è la fede e la resurrezione universale. Signore Dio mio, veramente si compirà il bene supremo e la fede mi accoglierà nel sacro recinto? Signore, come desidero la Tua luce, come anelo a te nell’oscurità!». E così, lei che proveniva da una famiglia ebrea, per quanto lontana dalle proprie radici religiose, riceve il battesimo nella Chiesa ortodossa il 2 maggio 1919.
In un mondo – quello sovietico – in cui la fede e le convinzioni personali sono relegate in un angolo buio dell’intimo, per la Judina l’unica legge è quella della coscienza, non ne esistono altre: così, propaganda il “clericale” Bach e i romanzi “epocali” di Solženicyn, supera immense distanze per recarsi a confortare gli amici deportati (rischia di morire per un’infezione contratta ad Alma-Ata, in Kazachstan, dove era andata a visitare la vedova del suo padre spirituale, Feodor Andreev); oppure per suonare per loro, ad esempio per il poeta Osip Mandel’štam, confinato a Voronež. Firma lettere e appelli in difesa delle libertà fondamentali, calpestate dal regime, ma fa presente ai dissidenti che senza misericordia e perdono non c’è possibilità di costruire una società realmente rinnovata. Nei periodi più bui della vita della Chiesa ortodossa, quando di fronte all’infierire delle persecuzioni la gerarchia ufficiale scende a compromessi, sceglie le comunità catacombali. Negli ultimi anni di vita si rivolge al giovane padre Aleksandr Men’, apostrofandolo senza mezzi termini: «Mi hanno detto che Lei ha il dono di convertire le persone, e io ne avrei parecchie sottomano: potrebbe aiutarmi?». Difende a spada tratta la musica contemporanea, l’avanguardia, ma non certo per il gusto di scioccare l’ascoltatore o di dare uno schiaffo alla tradizione, bensì perché vi ravvisa una scintilla dello Spirito, «il grido disperato dell’umanità contemporanea, sul punto di perire; ma la disperazione è la soglia del pentimento, del ritorno tra le braccia del Padre». Questa sua posizione, che la rende così moderna e spregiudicata, incurante di convenzioni e regole ma anche piena di fede, è l’esatto contrario di tanti atteggiamenti platealmente dissacratori ma spiritualmente vacui, puramente formali, assunti dall’avanguardia in Occidente. Lo scrive senza mezzi termini al critico musicale te per recarsi a confortare gli amici deportati (rischia di morire per un’infezione contratta ad Alma-Ata, in Kazachstan, dove era andata a visitare la vedova del suo padre spirituale, Feodor Andreev); oppure per suonare per loro, ad esempio per il poeta Osip Mandel’štam, confinato a Voronež. Firma lettere e appelli in difesa delle libertà fondamentali, calpestate dal regime, ma fa presente ai dissidenti che senza misericordia e perdono non c’è possibilità di costruire una società realmente rinnovata. Nei periodi più bui della vita della Chiesa ortodossa, quando di fronte all’infierire delle persecuzioni la gerarchia ufficiale scende a compromessi, sceglie le comunità catacombali. Negli ultimi anni di vita si rivolge al giovane padre Aleksandr Men’, apostrofandolo senza mezzi termini: «Mi hanno detto che Lei ha il dono di convertire le persone, e io ne avrei parecchie sottomano: potrebbe aiutarmi?». Difende a spada tratta la musica contemporanea, l’avanguardia, ma non certo per il gusto di scioccare l’ascoltatore o di dare uno schiaffo alla tradizione, bensì perché vi ravvisa una scintilla dello Spirito, «il grido disperato dell’umanità contemporanea, sul punto di perire; ma la disperazione è la soglia del pentimento, del ritorno tra le braccia del Padre». Questa sua posizione, che la rende così moderna e spregiudicata, incurante di convenzioni e regole ma anche piena di fede, è l’esatto contrario di tanti atteggiamenti platealmente dissacratori ma spiritualmente vacui, puramente formali, assunti dall’avanguardia in Occidente. Lo scrive senza mezzi termini al critico musicale tedesco Fred Prieberg: «Ecco in che cosa ha torto, signor Intellettuale: non esiste dogma, credenza, pratica religiosa, spiritualità, vita autenticamente religiosa che sia una cosa scontata, come Lei invece scrive nell’ultima lettera. La novità nasce ogni giorno; esattamente come Johann Sebastian Bach ogni domenica componeva una nuova cantata, anche la nostra vita interiore deve vibrare incessantemente ed essere in continuo movimento […] in attesa dell’inaudito miracolo che sta per sopraggiungerci da parte di Dio, del mondo, dell’uomo».
E sul piano personale dimostra una generosità incredibile, esagerata, che la urge a dare tutto quello che ha, anzi a indebitarsi per aiutare quanti le capita di incontrare e vedere nel bisogno. È così povera da non possedere neppure un proprio strumento.
La vita di Marija Judina è un alternarsi di trionfi e di disgrazie: a 21 anni si diploma a pieni voti al conservatorio di Leningrado e quasi subito vi ottiene una cattedra e il titolo di professore. Ne sarà cacciata nel 1930 in quanto «elemento reazionario e clericale»; negli anni di guerra suona pressoché quotidianamente alla Radio e si reca addirittura al fronte, nella Leningrado stretta d’assedio, per offrire il suo contributo all’eroica resistenza del popolo; si scontra con nuovi ostracismi nel dopoguerra, quando nel clima della guerra fredda cominciano le campagne contro il “formalismo” e il “cosmopolitismo” anche in campo musicale. I suoi concerti si riducono a sei o sette all’anno, al massimo, e nel 1960 viene estromessa dall’insegnamento anche a Mosca. Ma tutto questo per lei ha un’importanza solo relativa. Il suo scopo, il suo struggimento si è realizzato: «Ho cercato per tutta la vita l’Incarnazione della Verità nell’uomo, nell’arte e nella vita. E con l’aiuto di Dio l’ho trovata».
RICORDA
«Se noi continuiamo a commettere ingiustizia, io ci toglierà la musica».
(Cassiodoro, Institutiones, V, 2).
Per saperne di più…
Giovanna Parravicini, Liberi. Storie e testimonianze alla Russia, BUR, 2008.
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 54 – 55