Quando un narratore laico può rivelare la ricerca sincera del dialogo con il Creatore.
Nei suoi romanzi, la montagna si erge di fronte alla guerra esattamente come l’amore di Dio si staglia, sereno, di fronte alla violenza del peccato umano.
Quando ogni giorno, a tavola, dalla premura dei nostri cari riceviamo le pietanze, senza volerlo diamo per scontato che il cibo possa esserci sempre. Non è così, e noi che abbiamo la fortuna o piuttosto la responsabilità di vivere in tempi di benessere, corriamo il rischio di dimenticare altri tempi possibili, quelli di penuria, povertà, bisogno. Che i nostri padri vissero, epoche in cui la fame non era del tutto saziata.
Rigoni Stern è scrittore per chi non dimentica come l’attuale abbondanza sia un dono: la sua letteratura è destinata a lettori che provino gratitudine di fronte al fatto di svegliarsi in case ben riscaldate, attesi da un bagno accogliente, da una colazione e da una vita ordinaria improntata alla pace e alla convivenza.
Era necessaria questa premessa “tutta cose” per parlare dei libri di Rigoni Stern, perché altrimenti si sarebbe rischiato di cadere nell’equivoco dell’ennesima presentazione di un narratore tra tanti. Stiamo invece per entrare nell’opera di un trascrittore, un cronista di gesta avvenute, le quali attendevano solo di essere raccontate.
La montagna di fronte alla guerra
Mario Rigoni Stern è nato ad Asiago nel 1921, lo stesso anno di Eugenio Corti (detto tra parentesi, è bello leggere le loro esistenze alla stregua di due “vite parallele”); ha trascorso una giovinezza sobria e improntata ai valori civili di una famiglia italiana laica, presto arruolandosi volontario negli Alpini: decisione che segnerà il suo destino. Nel 1940 infatti, è sotto le armi quando scoppia la seconda guerra mondiale, e nel 1942 partecipa al contingente dell’Armir inviato alla “campagna di Russia”: la disastrosa ritirata nell’inverno seguente lo vede tra i pochi superstiti. Il capitolo più drammatico della sua vita termina con l’internamento in un Lager nazista, da cui venne fortunosamente liberato nel ’45, dopo aver patito come prigioniero stenti di ogni genere.
Di quelle eroiche vicende, Rigoni Stern fu protagonista ma ne divenne narratore soltanto quando uscì il suo Il sergente nella neve (1953): tra i tanti libri di memorie belliche, il suo spiccava per verace ispirazione e intensità. Vittorini, pubblicandolo per Einaudi, avvisò ambiguamente nella fascetta che “Rigoni Stern non è scrittore di vocazione”.
Ma non di guerra e di cose militari voglio parlare, perché credo che non stia qui il lascito letterario dell’autore veneto.
A mio parere, la sua opera omnia (Storie dall’Altipiano, nell’elegante veste dei Meridiani Mondatori, pp.1822, € 49) durerà nel futuro delle lettere a patto che gli uomini tornino a se stessi. In tal caso, i racconti rigoniani potrebbero svolgere un ruolo nella lunga epoca di ricostruzione che attende i nostri discendenti.
Allora, la montagna tornerà a ergersi di fronte alla guerra esattamente come l’amore di Dio si staglia, sereno, di fronte alla violenza del peccato umano; allora ci si emozionerà contemplando la maestà della vita, magari nello specchio di episodi come quello del primo giorno di vita dello scrittore. Si dice che, venuta la sera, suo fratello maggiore Giovanni Antonio, cinque anni, gli nascondesse “sotto il cuscino della culla un bel pezzo di pane per quando, svegliatosi, vorrà mangiare”.
Uomini, boschi e storie
Racconto corale, narrazione ciclica che torna sui suoi passi sempre nuova come le stagioni, alternarsi di semina e raccolto: da Tönle a Giacomo a Barba Matìo ad altri personaggi che è difficile dimenticare. Così si avvicendano i libri di Rigoni Stern: da Storia di Tonle (tra Otto e Novecento) a L’anno della vittoria (sulla ricostruzione dopo la Grande Guerra) alle Stagioni di Giacomo. Le voci si passano il testimone, perché grande è la materia da narrare: la vita che continua attraverso le generazioni.
Veramente, nell’opera del narratore di Asiago è visibile il miracolo della parola o del linguaggio, cioè dell’impronta del Creatore nella creatura; se parlare è dimostrazione dell’amore divino per noi, scrivere è la risposta a questo dono: Rigoni Stern corrisponde da par suo a questa sfida, nel tempo. Custodisce la memoria dei padri, come in Inverni lontani, o la sapienza dei montanari, come ne Il bosco degli urogalli: ma sa arricchire l’eredità dei posteri, come ne L’ultima partita a carte. Miracolo della memoria, facoltà data all’uomo per ringraziare Dio nel tempo.
I racconti di Rigoni Stern sono dunque pietra di paragone nella palude della narrativa contemporanea: opere fuori moda, discendono da tradizioni lontane (i cantastorie delle locande alpestri, le balie di montagna). Gli artisti viventi scoloriscono dirimpetto a questo narratore “non di vocazione”, come recitava la fascetta editoriale: se infatti chiamiamo Rigoni Stern “scrittore”, allora un Marco Lodoli o un Gianni Celati o un Daniele Del Giudice sono qualcosa d’altro, tanto per citare tre dei più interessanti prosatori postmoderni in lingua italiana. Adesso che le tracce della vera poesia si perdono come sentieri sotto la neve.
Sentieri sotto la neve
Nell’agosto del ’53, il trentaduenne impiegato del catasto Mario Rigoni Stern si recò a Viareggio per ritirare il Premio Opera Prima: comprò camicia e cravatta e partì di buon mattino col treno a cremagliera, viaggiando da Vicenza quasi sempre in piedi; giunto all’albergo dove una camera era stata prenotata per lui, salì in ascensore imbattendosi in un uomo robusto e accigliato: poco dopo, qualcuno gli fece notare che quell’uomo era Carlo Emilio Gadda. Che gaffe non averlo riconosciuto.
Sarà pure un aneddoto, eppure è emblematico di un destino.
Quando di nuovo i tempi saranno maturi, ci saranno dati scrittori incapaci di orientarsi nei meandri dei salotti letterari ma coraggiosi e temprati dalla vita e dal canto. Ammette Rigoni stesso che «la letteratura è come una foresta, ci sono alberi grandi e bellissimi che sovrastano gli altri: si chiamano Omero, Tucidide, Virgilio, Dante, Boccaccio, Cervantes, Shakespeare, Leopardi… poi alberi di ogni misura e aspetto. Ma la foresta è bella perché ci sono anche arbusti e cespugli. È tutto l’insieme che è bello.
Dove la foresta alpina si dirada e la montagna, in alto, diventa nuda, lassù cresce l’albero più piccolo della terra: il salice nano che si difende dal vento aggrappandosi al suolo e ruba calore alla roccia che il sole illumina. La neve lo copre per sette mesi all’anno. È stata lunga la mia stagione sotto la neve; ecco, nella foresta della letteratura sono un salice nano».
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