Il caso della donna che ha rifiutato l’amputazione della gamba ci aiuta a riflettere sul rapporto tra l’uomo e la sua malattia. Affinché la libertà del paziente si coniughi sempre con la verità oggettiva contenuta nell’atto medico.
Ha fatto molto discutere la notizia – rilanciata con una certa invadenza dai mass media – di una donna italiana di circa sessant’anni che ha rifiutato di sottoporsi ad amputazione della gamba, nonostante il parere dei sanitari. Secondo i medici, senza quell’intervento drastico la paziente avrebbe seriamente rischiato di morire. E di fatto, qualche giorno dopo la paziente è deceduta. Può essere utile riflettere sulle implicazioni morali di questo caso, cercando di mettere a fuoco gli elementi fondamentali del rapporto tra medico e paziente, all’interno di una corretta visione dell’uomo e della sua dignità.
Il giudizio sul fatto
È bene assumere un atteggiamento prudente nel giudicare il singolo episodio: di questa donna e della sua situazione di salute sappiamo obiettivamente poco, e ciò che conosciamo è frutto del linguaggio necessariamente semplificatorio dei mezzi di comunicazione. Inoltre, ogni caso clinico rappresenta un unicum, che deve essere affrontato da medico e paziente alla luce dei dati di fatto a disposizione. In terzo luogo, bisognerà evitare di agire secondo un’etica della circostanza, cioè creando di volta in volta nuove norme morali di comodo, senza per altro ignorare tutti gli elementi che compongono quel particolare quadro clinico.
Il caso della donna che ha rifiutato l’amputazione chiama in gioco tre questioni fondamentali: qual è il senso dell’atto medico; qual è il rapporto fra la libertà del paziente e i doveri del medico; qual è la posta in gioco dietro a casi come questo.
L’atto medico e la proporzionalità delle cure
Il medico è custode e servitore della vita umana. L’arte medica non è una professione come le altre, ma risponde a uno scopo oggettivo che la riempie di significato morale. In tal senso, è certamente positivo che dei medici raccomandino a un paziente una terapia anche gravosa – come può essere l’intervento di amputazione – quando essa sia indispensabile alla salvezza del malato. Questa condotta rinvia a un principio morale fondamentale: tutti hanno il dovere di curare e di farsi curare. Questo dovere si riferisce a tutte le cure che abbiano carattere proporzionale, tenuto conto del tipo di terapia, del grado di difficoltà dell’intervento, del rischio che comporta, delle spese necessarie, delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali. Come vedete, diviene estremamente difficile, se non temerario, formulare un giudizio etico senza possedere tutte queste informazioni di fatto.
Dall’altro lato, come più volte chiarito dal Magistero – e in particolare da alcuni discorsi di Pio XII – il medico può agire solo se il paziente lo autorizza, salvo il caso di consenso presunto perché il soggetto non è in grado di intendere e di volere. Queste indicazioni sembrano condurre, per casi simili a quello di cui stiamo parlando, a una sorta di punto morto. Ma, come vedremo, c’è una soluzione ragionevole.
Il rapporto tra medico e paziente
Non dobbiamo mai dimenticare che quello fra medico e ammalato è un rapporto asimmetrico: il paziente è la parte debole, vulnerabile, perché soffre e non è competente; il medico al contrario ha la mente lucida, è meno coinvolto emotivamente (la malattia è fuori dal suo corpo) ed ha studiato proprio per rispondere a questo grido che chiede salvezza.
Se ne deve dedurre che questo rapporto fiduciario dovrebbe suggerire al paziente di affidarsi al medico, e che il medico dovrebbe avvertire su di sé tutto il peso di questa straordinaria responsabilità.
Il rapporto tra medico e paziente non è un contratto giuridico, uno scambio di servizi fra cliente e fornitore: la medicina ha un significato intrinseco che non dipende dalla volontà del paziente e del medico, ma che rimanda a un solo, grandioso, scopo fondamentale: si fa medicina per curare chi soffre e, se possibile, per salvarlo. C’è un bene oggettivo tutelato dall’atto medico, c’è un “sacerdozio del corpo” che spiega perché il medico possa toccare un altro uomo, incidere con il bisturi la sua pelle, conoscere i suoi segreti più intimi, entrare in sintonia con l’altro che soffre al punto da compatirlo, da vivere insieme l’esperienza del male. Stiamo parlando del bene della vita, per il quale ogni medico degno di questo nome combatte in trincea ogni giorno. Medico e paziente non possono essere nemici, ma alleati, ciascuno all’interno del proprio ruolo.
Dunque, se è vero che il medico non può prevaricare la libertà del suo assistito, è altrettanto vero che il malato si assume davanti a Dio e agli uomini una grave responsabilità morale quando decide di non ascoltare le pressanti indicazioni del medico, che mirano a salvargli la vita. Quando vi è un nesso diretto e immediato fra la terapia e il pericolo di morte incombente, un rifiuto del paziente appare come un atto di particolare gravità.
I pericoli di una deriva verso il diritto al suicidio e all’eutanasia
La nostra società è fortemente orientata ad affermare la libertà individuale in contrapposizione alla verità morale.
Ecco perché molti giornali hanno presentato la vicenda di questa donna come l’affermazione quasi eroica di un antiprincipio: questa paziente fa bene a non farsi operare perché il corpo è suo e ne fa quello che vuole. Un po’ come dicevano, sbagliando, le femministe a proposito dell’aborto. La vera sfida, dunque, è reagire all’idea falsa – ma affascinante per l’uomo moderno – che il diritto alla vita sia disponibile, e che ognuno possa fare ciò che vuole della propria esistenza. Secondo un sillogismo micidiale ma coerente, se quella donna ha avuto ragione a rifiutare le cure, allora anche suicidarsi rientra nella libertà della persona; e – passo ulteriore – chiedere l’eutanasia realizza un modo moralmente e giuridicamente lecito di uscire dalla scena del mondo. In questa prospettiva, il medico sarebbe ridotto a mero esecutore della volontà del paziente. Non è un caso che alcuni quotidiani abbiano inserito nella stessa pagina la notizia della donna, l’annuncio del varo del Testamento di Vita da parte del Comitato Nazionale per la Bioetica, e qualche caso di eutanasia avvenuto in Europa. Questo uso strumentale della vicenda deve essere denunciato. Pur senza negare l’importanza della libertà del paziente – che è un valore morale – bisognerà evitare che essa sia usata per affermare un presunto “diritto alla morte” che avrebbe conseguenze devastanti per la nostra civiltà.
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