A una povertà diffusa la Chiesa ha saputo far fronte dando vita ad innumerevoli forme di carità. Spirituale e materiale. Perché nel povero si riflette l’immagine di Cristo.
Si era dimostrato un lucido osservatore papa Innocenzo III nel denunciare, agli inizi del XIII secolo, il carattere religiosamente e socialmente devastante assunto dalla vita cittadina.
In corrispondenza alle trasformazioni economiche operate dai nuovi ceti mercantili, si era sviluppata, infatti, nei grandi centri cittadini dell'Occidente una vitalità produttiva e finanziaria tale da formare una rete di rapporti economici in continua crescita. Ma proprio le inusitate modalità di produzione e di gestione delle attività redditizie avevano favorito il sorgere di una nuova categoria di poveri: quei salariati che, remunerati in modo inadeguato, non ricavavano dal proprio lavoro di che vivere con dignità.
Questi andavano a irrobustire la massa degli altri poveri, un soggetto sempre più diversificato e problematico da gestire proprio nell'ambito delle realtà cittadine. C'erano coloro che vivevano ai margini della società per scelta religiosa, nella pratica della mendicità come strumento di penitenza; gli studenti – sempre a corto di denaro – spesso forestieri, non integrati nella vita delle città e percepiti come elementi di disturbo; i pellegrini, che avevano rinunciato a ogni loro avere e si muovevano lungo le grandi vie di traffico.
Si incontravano poi, numerosi, i poveri occasionali, resi tali dalle guerre, dalle carestie, dalle devastazioni epidemiche che frequentemente si abbattevano sulle popolazioni europee; e tra questi la categoria – forse un po' curiosa ai nostri occhi -, dei "pauperes verecundi" (i poveri vergognosi). Persone appartenenti a ceti sociali abbienti o di medio benessere che rovesci di fortuna, improvvise disgrazie, avventurose imprese economiche avevano precipitato sotto la soglia di povertà. Costoro proprio per la posizione sociale un tempo occupata, per un senso di dignità personale ancor vivo, non volevano mostrarsi poveri; era compito dei conversi degli ospedali (e più sovente dei membri delle confraternite legate agli ospedali) non abbandonare, sostenere e aiutare questi nuovi poveri.
A questa moltitudine di necessità la Chiesa, in particolare, aveva saputo nel tempo rispondere in modo differente e articolato. Ecco allora la destinazione specifica ai poveri di una parte dei redditi delle chiese episcopali e l'accoglienza praticata nei monasteri (la porta della carità). In prossimità dei passi alpini o presso i ponti gettati sopra i fiumi più profondi e vorticosi erano sorti ospizi per l'accoglienza del viandante, del pellegrino, del vagabondo. A Cluny il monaco cellerario recitava quotidianamente una Messa per i poveri.
Anche molte disposizioni testamentarie dei più ricchi non dimenticavano gli indigenti e prevedevano donazioni pro remedio animae.
Ma la povertà era stata e rimaneva un problema costante e quotidiano nella società medievale. Un regime alimentare appena sufficiente, le scarse difese contro le malattie, le pessime condizioni igieniche non davano tregua a una popolazione sulla quale con grande facilità potevano infierire i fattori climatici e soprattutto gli eventi epidemiologici. In pieno XII secolo della massa dei poveri si preoccupavano i dirigenti delle città, intimoriti dal potenziale destabilizzante e rivoluzionario che questi avrebbero potuto esprimere; le magistrature dei comuni erano dunque intente a individuare modi e strutture per regolare questi gruppi sociali e controllarli. La risposta più originale venne ancora una volta dall'intenso clima di risveglio religioso che caratterizzò quel periodo. Sorsero o si rinnovarono le confraternite, di antica formazione o recenti e legate ai nuovi ordini mendicanti; queste scholae proponevano ai laici forme di vita associativa con finalità religiose e di mutua assistenza. Prevedevano, infatti, la partecipazione settimanale alla Messa e a pratiche liturgiche e di pietà, oltre a forme di reciproco aiuto, e spesso spingevano anche pratiche di carità in particolare verso i carcerati, gli ammalati e i poveri, cui si aggiungeva la sepoltura dei defunti.
Fiorirono assai numerosi gli ospedali, spesso nati – almeno nell'Italia centro-settentrionale – grazie all'iniziativa e all'impegno di laici provenienti dalle fila del populus, dediti alla carità attiva e all'assistenza, azioni in cui si realizzava una intensa e specifica vocazione religiosa. Questi ospedali medievali erano considerati loci religiosi e in quanto tali sottoposti all'autorità ecclesiastica, che ne normava gli Statuti ed effettuava un controllo sull'organizzazione interna. Molteplice si era rivelata la vocazione di tali istituzioni sorte per esercitare forme attive di carità verso il prossimo: un hospitale era innanzitutto un ospizio, in cui alla cura dei corpi dei malati – secondo le generiche, assai poco specialistiche e spesso inefficaci conoscenze mediche dell'epoca – si alternava l'accoglienza dei pellegrini, che numerosi popolavano le strade d'Europa, diretti ai più remoti santuari della Cristianità, da Roma a Gerusalemme, a Santiago; si praticava con assiduità l'assistenza agli anziani, alle vedove, agli orfani, insomma ai deboli, agli indigenti delle diverse categorie e fasce sociali. Talora, segno di indubbia novità nella tradizione delle istituzioni ecclesiastiche, accadeva che le comunità di conversi degli ospedali si presentassero nella versione di comunità doppia o mista, cioè di comunità maschile e femminile, divise negli ambiti di convivenza, impegnate in compiti differenti, ma unite sotto la guida un unico magister, e in alcuni casi di una ministra. Ne è documentata l'esistenza nell'alta pianura padana, in area lacustre e anche negli ospedali di passo in Trentino.
Si formarono, infine, veri e propri ordini ospedalieri. L'ordine degli Antoniti, fondato a Vienne (in Francia) negli ultimi anni dell'XI secolo, si era specializzato nella cura di un male (l'ergotismo cancrenoso) indicato come "fuoco di Sant'Antonio"; a Roma gestiva un ospedale annesso alla basilica lateranense (divenuto l'attuale ospedale di San Giovanni). Sempre a Roma, l'ordine dello Spirito Santo, sorto a Montpellier, era responsabile di un ospedale affidatogli da Innocenzo III (oggi Santo Spirito). A Bologna sorsero i Crociferi; in Terra Santa per la cura e la difesa dei pellegrini gli ospedalieri di San Giovanni. Per sostenere i malati al tempo più temuti ed esclusi da ogni contesto sociale – i lebbrosi – si formò l'ordine di San Lazzaro.
Come molteplici erano le vocazioni religiose volte all'assistenza così diverse risultano le espressioni che indicavano la carità vissuta (caritas, pietas, misericordia) e diversi erano i modi di praticarla. Anche se talora, caduta la tensione religiosa, ci si limitava a concepirla nei suoi aspetti più concreti: "Vulgo in Lombardico caritas dicitur elemosina" scriveva il vescovo Bartolomeo Breganze, intorno all'anno 1270. L'equivalenza tra carità ed elemosina che il presule registrava era il segnale dell'immiserirsi della concezione della caritas nella coscienza comune.
Restò tuttavia, e forte, anche l'altra idea di carità, quella che non si limitava a donare qualcosa ai poveri, quella che nel povero insegnava a servire il Cristo sofferente e a guardare il Dio del Vangelo, anche nel dono estremo di sé. Come accadde agli inizi del Duecento a Cacciafronte di Cremona, un monaco divenuto vescovo di Vicenza, che, inviso ai potenti del luogo, venne ucciso da un sicario mentre, solo e senza difese, donava una veste a un povero sul sagrato del Duomo.
RICORDA
«L'elemosiniere è incaricato di distribuire le elemosine ai poveri, ai mendicanti, ai pellegrini, agli orfani, alle vedove, ai chierici poveri, ai viaggiatori, agli stessi lebbrosi. (…) Più di ogni altro, l'elemosiniere doveva mostrarsi buono, moderato, pieno di compassione e di carità, capace di sopportare senza impazienza le recriminazioni e le urla degli sfortunati che lo assillavano».
(Léo Moulin, La vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, Oscar Mondadori, 1988, p. 179).
BIBLIOGRAFIA
La carità a Milano nei secoli XII-XV, a cura di Maria Pia Alberzoni e Onorato Grassi, Milano 1989.
Uomini e donne in comunità, "Quaderni di storia religiosa", 1 (1994).
Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, a cura di Vera Zamagni, Bologna 2000.
IL TIMONE N. 70 – ANNO X – Febbraio 2008 – pag. 28-29