Le elezioni si sono tenute. Un passo avanti verso la libertà nel Medio Oriente, mentre Al Qaida ha perso un terzo dei propri effettivi. Una significativa sconfitta del terrorismo intenazionale.
Domenica 30 gennaio 2005 Baghdad e l’Iraq si svegliano apprestandosi a vivere una giornata che molti hanno sognato fin dalla Prima guerra mondiale, per cui tanti sono morti e che nessuno fino a quel giorno ha mai visto. La democrazia è promessa all’Iraq nel 1920 dagli inglesi, che hanno inventato questo nuovo Stato unendo tre province dell’Impero Otto mano diverse per etnia (arabi e curdi) e religione (sciiti e sunniti). Dopo parecchi morti, l’Inghilterra decide di ritirare le sue truppe nel 1932 e lascia il re “straniero” Feisal I, che viene dall’Arabia, a sbrigarsela da solo.
Il re, sunnita, spiega alla Società delle Nazioni che la democrazia è impossibile: vincerebbero gli sciiti, maggioritari, e instaurerebbero un governo religioso sciita e arabo contro cui sunniti e curdi non potrebbero che scatenare una guerra civile. I successori di Feisal mantengono lo stesso argomento, finché nel 1958 l’ultimo re, Feisal Il, è massacrato nel corso di un colpo di Stato di militari laici, di idee tra loro diverse ma tutti ostili alla democrazia. Nel 1979, liquidati i compagni di viaggio comunisti e nasseriani, e le altre correnti del suo stesso partito Ba’th, va al potere Saddam Hussein, e seduce per anni l’Occidente con la solita canzone: niente democrazia, o gli sciiti che hanno appena preso il potere a Teheran trasformeranno l’Iraq in una seconda teocrazia di tipo iraniano.
Eppure ci sono sempre state in Iraq voci che hanno cercato di spiegare che le cose non stanno così. Che il mondo sciita iracheno ha una tradizione “costituzionalista” secondo la quale il clero non deve governare direttamente, e i laici sciiti devono inserire il dovuto ossequio all’islam nei limiti di una Costituzione che garantisca anche le minoranze. E fra le voci che hanno chiesto elezioni libere – fin dagli anni 1920, ben prima che sulla scena facesse irruzione George W. Bush – ci sono sempre state anche voci di sunniti.
Ora per la prima volta nella storia dell’Iraq si è votato, anche se si tratta del primo tempo (l’elezione di un’assemblea costituente) di una partita che ne comporta un secondo, articolato nel referendum di ottobre per approvare la nuova Costituzione e nelle elezioni politiche di dicembre.
Delle elezioni gli sciiti, una maggioranza cui da secoli è impedito di governare, parlano fin dalla caduta di Saddam con fervore religioso, e l’entusiasmo è apparso da subito palpabile anche fra i curdi, che hanno votato pure per una Assemblea Nazionale del Kurdistan, insieme una struttura destinata a integrarsi in un futuro Iraq federale e qualcosa che in nessun altro Paese il tormentato popolo curdo ha mai potuto neppure sognare.
Gli occhi erano semmai puntati sulla minoranza sunnita: sugli sforzi, favoriti da un’ampia campagna del partito al governo in Turchia che persegue la linea di un islam conservatore ma non fondamentalista, per indurla a non astenersi e per dare un ruolo importante a leader sunniti come Ghazi al-Yawar, fino alle elezioni presidente provvisorio della Repubblica e dirigente che rappresenta un mondo tribale da sempre ostile a Saddam Hussein.
Il dato di partecipazione alle elezioni è tecnicamente miracoloso. In Iraq ha votato poco meno del 60%, una percentuale che sarebbe alta per gli Stati Uniti o l’Inghilterra ma è straordinaria per il paese mesopotamico. E ha un preciso significato politico.
Anzitutto, sono stati clamorosamente smentiti i profeti di sventura, che – “gufando” contro gli americani e il loro piano di Grande Medio Oriente – prospettavano una giornata apocalittica. L’ex-ministro degli Esteri francese de Villepin prevedeva che il 30 gennaio sarebbe stato «1’11 settem-bre dell’Iraq». La nostra sinistra, al solito, si accodava. Sin Laden e Zarqawi assicuravano che i loro cecchini avrebbero falciato in massa gli incauti iracheni che si fossero messi in coda per votare. È giusto piangere sui ventiquattro morti del 30 gennaio, piccoli grandi eroi della libertà che ci ricordano come per il voto qualcuno sia disposto anche a sfidare la morte. Ma è anche do-veroso concludere che l’apocalisse e 1’11 settembre dell’Iraq esistevano solo negli incubi malefici di AI Qaida e nei calcoli miopi di qualche uomo politico europeo.
Il successo delle elezioni è anche la prima seria sconfitta di AI Qaida, la quale aveva assicurato che le avrebbe impedite. Il senatore Ted Kennedy, bolso campione di un pacifismo uscito con le ossa rotte dalle elezioni americane, ha motivato il suo voto contro Condoleeza Rice come Segretario di Stato affermando che l’occupazione dell’Iraq ha attirato in quel Paese i terroristi come il miele attira le mosche. La Rice ha prontamente risposto che i terroristi sono sì accorsi in Iraq, ma il miele si è rivelato piuttosto carta moschicida. Nessun governo di questi tempi può permettersi di sbandierare statistiche sui morti ammazzati, neppure quando si tratta di terroristi. Eppure le cifre sono trapelate. Sono stati uccisi in Iraq quindicimila terroristi, una buona metà dei quali stranieri. Secondo le stime più autorevoli dopo la guerra in Afghanistan il network di AI Qaida si era ridotto a circa ventimila effettivi. Dunque un terzo degli uomini di Sin Laden è morto in Iraq per conseguire un obiettivo – impedire le elezioni – che ha fallito. Certo, i terroristi continueranno a colpire mercati, ospedali e moschee e ad ammazzare iracheni e musulmani – molti dei quali, come nel caso della maggioranza della strage di Hilla del 28 febbraio, sunniti – colpevoli solo di passare nel posto sbagliato quando la furia cieca del terrorismo decide di colpire.
Cercheranno di impedire il referendum sulla Costituzione e le elezioni politiche definitive. Ma perderanno altri uomini: anche se ne recluteranno di nuovi, ormai soprattutto in Europa, all’ombra di quei giudici permissivi o obnubilati dall’ideologia che mandano liberi i reclutatori e i reclutati e di cui l’Italia ha offerto diversi esempi deprecati in tutto l’Occidente.
La percentuale elettorale e la sua distribuzione geografica dimostrano che hanno votato anche molti sunniti e che quella secondo cui i sunniti “non hanno partecipato alle elezioni” è una semplice bugia. Sciiti e curdi hanno vinto perché sono la maggioranza, e nelle elezioni democra-tiche quando il voto è onesto le maggioranze popolari diventano parlamentari. Ma molti sunniti hanno dimostrato di preferire le elezioni, che pure danno certamente al Paese un’egemonia sciita, ai salti nel buio proposti dai terroristi e dai nostalgici di Saddam.
I risultati elettorali sono a loro volta positivi. Si votava per un’assemblea costituente, non per il parlamento, e alla lista sciita, pure maggioritaria, mancano i numeri per votare una Costituzione da sola, garanzia che dovrà trattare con le minoranze, costretta dalla forza dei numeri e non solo dalle buone intenzioni. Nell’attesa della Costituzione, per ora è giusto celebrare un miracolo politico. Sarebbe bello che anche chi è sceso in piazza per gridare che era una missione impossibile oggi riconoscesse che in Iraq non ha vinto una parte politica, ma la libertà. Ma, almeno in Italia, purtroppo non sta accadendo nulla di simile.
IL TIMONE – N. 42 – ANNO VII – Aprile 2005 pag. 14 -15