C’è una bella differenza fra il mettere una maschera alla morte e il toglierla. Francesco d’Assisi scelse di toglierla, chiamandola “sorella morte”, e suggerendo così che dietro il suo volto tenebroso ce n’era uno splendido e luminoso, fatto di resurrezione. Altri, invece, quel volto vogliono coprirlo con una maschera chiamata eutanasia: eu-thanatos vuol dire appunto “buona morte”, come se si potesse imporre alla tragedia della morte un sorriso forzato, una maschera tranquillizzante che, applicata sul moribondo, tiene lontano il dolore, e soprattutto la nostra capacità di esporci ad esso. Ci domandiamo: perché una maschera così desiderabile non è mai stata legalizzata? Come mai le potentissime lobbies dell’eutanasia hanno sempre fallito, riducendosi ad inseguire vittorie solo tramite sentenze strappate a magistrati compiacenti? Forse perché il laicismo dei media non aveva sradicato a sufficienza la coscienza cristiana? No, il vero motivo per cui la tanatocrazia si è di volta in volta inceppata è ben altro: è semplicemente la sberla della realtà. Due soli esempi. Guido Tassinari, fondatore del Club per l’Eutanasia, radicale convinto che negli anni Ottanta aveva già tenacemente combattuto per divorzio, aborto, sterilizzazione e sbattezzo, decise che era giunta l’ora di un disegno di legge per l’eutanasia, e con le sue capacità di scrittore e filosofo cominciò a stenderne il testo. Nell’89, conoscendo le sue idee, un cameriere di 33 anni, Umberto Santangelo, gli chiese una mano per morire perché asseriva di avere un cancro incurabile. Tassinari gli diede un appuntamento in un albergo. E un’iniezione di Pentothal. Naturalmente, dopo la morte del giovane, finì sotto processo, e fu lì che il filosofo ricevette la prima sberla dalla realtà: scoprì che il “malato” non era affatto un malato, ma semplicemente un depresso che aveva già tentato quattro volte il suicidio. Prima ancora della sentenza, la seconda sberla: Tassinari cadde misteriosamente in coma, e vi rimase per un intero mese. Quando ne uscì capì, tra le altre cose, che se il suo progetto di legge fosse passato, lui stesso sarebbe stato un possibile soggetto di eutanasia. Alla TV gli italiani lo sentirono dire, sbigottiti, che la vita vale comunque la pena di essere vissuta, nonostante il suo bagaglio di dolore, e che andava ritrovato il coraggio di vivere.
Morì poco dopo, nel ’93, e censurando queste sue ultime dichiarazioni i radicali lo commemorano ancora come il paladino dell’eutanasia. Il Club passò nelle mani di un suo amico, il sessuologo Giorgio Conciani, primo medico fautore dell’aborto clandestino, chiamato il Dottor Morte perché a chi veniva nel suo studio sfoggiava la sua copia del Final Exit, di Derek Humphry, la guida al suicidio divenuta best-seller negli Stati Uniti. Ai giornalisti che gli chiedevano perché la gente si rivolgesse a lui per morire, rispondeva che non è facile spararsi bene in bocca senza precise istruzioni di un medico, o buttare nella propria vasca una stufetta accesa senza ricordarsi del salvavita. Conciani ricevette la sua sberla quando i carabinieri, su segnalazione dell’ennesima casalinga depressa desiderosa del giusto cocktail di farmaci letali, fecero irruzione nel suo studio trovandolo all’opera con una minorenne che per 700mila lire gli aveva chiesto di abortire. Portarono via lui, la minorenne, ed un quintale di grani d’argento inspiegabilmente ritrovati nel suo studio. Fu radiato dall’Ordine dei Medici nel ’95. Ed egli, che aveva sempre sostenuto che la vita andava tolta se non meritava di essere vissuta, si accorse che senza lavoro e con la minaccia del carcere era diventata la sua, secondo lui, una vita non degna di essere vissuta. E nel ’97, coerente alle sue idee sull’eutanasia, s’impiccò. Tassinari, Conciani, due soli esempi di come la realtà superi di gran lunga le ideologie. E di come, in Italia, la tanatocrazia s’inceppò. Come s’inceppò, per casi analoghi, anche all’estero, salvo in poche isole della morte come l’Olanda, il Belgio e lo stato dell’Oregon. Assai poco memori di tutte queste vicende, i club per l’eutanasia continuano però a fiorire, come “Exit Italia”, o “Libera Uscita”.
Anche in questo caso i filosofi non mancano: vanno per la maggiore gli scritti di Peter Singer, filosofo australiano noto per il suo appoggio all’eutanasia dei bambini.
Scrive nella sua Tesi della Sostituibilità: «Principio generale per l’eutanasia neonatale: quando un bambino malato, oltre a comportare sofferenze e stress per i genitori, comprometterebbe la loro possibilità di avere un altro bambino, e diminuirebbe le attenzioni dedicate ai fratelli già nati, è preferibile sopprimere il bambino malato in fase neonatale e sostituirlo con un nuovo progetto creativo».
Insomma, per Singer agli adulti sani vanno conferiti gli stessi poteri di Dio, mentre i bambini malati equivalgono a pneumatici bucati: vanno gettati e sostituiti. Non è questo un ritorno all’eugenetica di Hitler? Non si vuole qui tentare di riprendere lo sterminio dei duecentomila disabili che il nazismo operò in nome della purificazione della razza?
Dice il Catechismo: «Coloro la cui vita è minorata o indebolita richiedono un rispetto particolare» e definendo l’eutanasia «moralmente inaccettabile» aggiunge: «Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore» (CCC 2276-7). Ma, prima della Fede, già la semplice ragione si ribella all’idea che l’umanità non sappia trovare un’alternativa alla pillola di cianuro del dottor Hackethal, alla macchina per suicidarsi del dottor Kevorkian, alle mortali endovene d’aria dell’infermiera Caleffi. E mentre la tecnoscienza, che non riconosce nessuno superiore a sé, stringe progressive alleanze con la magistratura, occorre che i cristiani ribadiscano a chiare lettere che la vita umana è un bene assoluto di cui nessuno ha il potere di disporre, perché essa non si esaurisce nella sua dimensione biologica e sociale.
Come diceva Pascal, c’è qualcosa nell’uomo che supera infinitamente l’uomo.
IL TIMONE N. 95 – ANNO XII – Luglio/Agosto 2010 – pag. 61