La Conferenza del Cairo su Popolazione e Sviluppo del 1994 introdusse ufficialmente nel linguaggio giuridico internazionale il “diritto alla salute riproduttiva”. Di cosa si tratta? Del diritto della madre alla tutela della propria gravidanza? Del diritto del bambino alla tutela del proprio sviluppo nel grembo? Sembra paradossale, ma si tratta, tra le altre cose, del diritto della madre di… uccidere il proprio figlio.
Questa mistificazione del linguaggio riguardo l’aborto c’è sempre stata: lo stesso termine “aborto” è spesso sostituito con “interruzione di gravidanza”, per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla funzione (la gravidanza) e non sul suo reale contenuto (il bambino in via di sviluppo). Per ricorrere ad una similitudine, è come se si giustificasse l’investimento mortale di un passante col termine “diritto alla salute automobilistica” o “interruzione di vigilanza”. Il Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, definì nel 2004 la logica del Cairo «un pensiero utilitaristico e neomaltusiano», una «ideologia. (…) che riduce la salute a quella degli organi sessuali e al godimento del piacere sessuale».
Il nostro Catechismo afferma che «la vita umana dev’essere rispettata e protetta in modo assoluto fin dal momento del concepimento» (CCC 2270), ma è bene ricordare che l’aborto non è una questione di fede: la vita umana è un valore oggettivo e non negoziabile. Uno dei primi a legalizzare l’aborto in Europa fu Hitler. Oggi, nei Paesi UE si commette un aborto ogni 26 secondi: milioni di aborti che stanno inoltre provocando il deficit demografico (e di conseguenza economico) dell’Europa. Ma il vero deficit è quello della coscienza, che non avverte più tutto questo come una strage di innocenti. Per non parlare del trauma che avviene nella mente (specie se giovane) di chi compie l’atto senza la corretta informazione. La “cospirazione silenziosa” di cui parlava il dr Bernard Nathanson (che pubblicò il primo video shock sulla realtà dell’aborto: The Silent Scream, reperibile anche in internet), non s’è affatto attenuata negli anni successivi, e tutt’oggi, nell’era della massima informazione, la maggior parte delle persone sono completamente all’oscuro del fatto che venga effettivamente ucciso un bambino: lo s’immagina qualcosa di non ancora formato, o addirittura un “grumo di cellule”. La mistificazione del linguaggio arriva a definire il bambino “prodotto del concepimento”. La TV trasmette di tutto, ma è assai difficile che si vedano le immagini dello sviluppo del bambino nel grembo mese per mese. Quando la San Paolo pubblicò un libro con le prime fotografie dello sviluppo del feto, ottenute grazie alle nuove fibre ottiche, i gruppi radicali ed abortisti protestarono pubblicamente chiedendo l’immediato ritiro del volume. Eppure erano solo immagini scientifiche, e non compariva nemmeno una volta la parola aborto: oscurantismo passato in sordina, che perdura tutt’oggi. Anche fra persone colte, quanti sanno che il battito cardiaco comincia a 3 settimane? Che l’attività encefalica inizia a 6 settimane? Che braccia, gambe, fegato e polmoni sono già formati quando la sonda dell’aborzionista aspira dall’utero il “prodotto” del concepimento?
L’assemblea del Consiglio d’Europa di Strasburgo ha approvato il 27 gennaio scorso un documento (presentato dalla britannica Christine McCafferty) che raccomanda all’ONU il diritto dei minori all’aborto senza informarne i genitori (cosa peraltro spesso già possibile). E mentre il linguaggio continua nella sua demolizione di significato (da “interruzione volontaria di gravidanza” a IVG, da “estrazione della testa del feto” a “estrazione del numero uno”, ecc…), le tecniche per abortire si sono sempre più moltiplicate. Dopo la ben nota “pillola del giorno dopo” (spacciata dai bugiardini che accompagnano il prodotto come “contraccettiva”; ma… sono appunto “bugiardini”), c’è la micidiale RU486 (o “pillola del mese dopo”); nei primissimi mesi di vita si fa ricorso al metodo Karman: una sonda aspirante 70 volte più potente di un comune aspiratore domestico, che smembra e risucchia le parti del bambino (più elegantemente: “evacuazione uterina”); tra il 2° e il 3° mese si ricorre al “raschiamento”: viene staccato il cosiddetto “rivestimento uterino” con un attrezzo metallico ad anello, per rimuovere il “tessuto fetale” con un forcipe (forcipe per un “tessuto”?). Dopo il 3° mese il bambino è troppo grosso per ricorrere ai sistemi precedenti; viene quindi avvelenato con soluzioni saline (o prostaglandine) per provocarne la morte e la conseguente espulsione; vicini al 5°-6° mese si ricorre invece all’isterotomia: è come un parto con taglio cesareo dell’addome, solo che il bambino, anziché essere curato o messo in incubatrice, è buttato in una bacinella finché morte non sopraggiunga. Se però occhi indiscreti non guardano, il “materiale fetale” è molto ambito da diversi tipi di ditte (altro scandalo ben noto) che lo vendono tramite appositi listini somiglianti al ricettario del Dr. Frankestein. A Mosca le cliniche invitano le donne desiderose di abortire a condurre, spesate, la gravidanza fino al giorno del parto, in modo da poter fruire di qualche chilo di prezioso “materiale biologico” per la produzione di “prodotti a base di cellule umane vive” venduti a prezzi considerevoli nei mercati internazionali e spacciati come elisir di bellezza od antirughe efficaci. Negli USA è andato invece molto in voga il “partial-birth abortion” eseguito durante il parto, perché se il bambino nasce vivo ha diritto di cittadinanza, ma se ne viene perforato il cranio a metà parto si evitano i suoi diritti giuridici.
Meglio ripassare l’antica Didaché, che riportando la dottrina dei 12 apostoli, afferma: «Tu non ucciderai con l’aborto il frutto del grembo, e non farai perire il bimbo già nato» (2,2).
IL TIMONE N. 93 – ANNO XII – Maggio 2010 – pag. 61