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14.12.2024

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Natale in casa Corti
31 Gennaio 2014

Natale in casa Corti

 

 

 

Il grande scrittore cattolico ricorda come ha vissuto il “giorno di Natale” nel corso della sua lunga esistenza. Da quando era bambino fino ad oggi. Passando per quel tragico 1942, quando si trovava nella “valle della morte”, lungo la tragica ritirata di Russia

Il Natale di Eugenio Corti. Impossibile raccontarlo senza quel 24 dicembre 1942, decisivo per la sua intera esistenza. Il futuro scrittore, che avrebbe compiuto 22 anni nel gennaio successivo, si trovava in Russia da sei mesi: aveva partecipato alla grande avanzata dal Donez al Don, su questo fiume aveva combattuto per contrastare l’attacco russo iniziato il 16 dicembre, dal 19 si trovava con migliaia di commilitoni sbandati nell’inferno di ghiaccio della ritirata. Insieme a Corti erano circa 30.000 gli italiani del 35° Corpo d’Armata accerchiati sul Don: dalla sacca escono in poco più di 4.000.
La tragica contabilità dei morti in combattimento e degli uomini fatti prigionieri dei russi dà l’idea di quale potesse essere il cuore con cui, quell’anno, Eugenio si preparava al Natale. Il cammino interminabile nella neve senza viveri né munizioni, i giorni e le notti trascorsi all’aperto sotto l’incessante fuoco nemico, le temperature tremende dell’inverno in Russia – spesso intorno ai 40° sotto zero – rendevano quasi impossibile avere coscienza piena della situazione. «Addirittura – ricorda lo scrittore – già allora non ero sicuro di quale fosse realmente il giorno di Natale, al punto che per tre giorni di fila ho avuto il dubbio che fosse quello in cui mi trovavo».
Quell’anno la vigilia non ha nulla di poetico: Eugenio la trascorre nella vallata di Arbusov, significativamente ribattezzata dai soldati italiani “Valle della morte”, trascinando le ore nella fame e nel gelo feroce, saltellando e muovendosi in continuazione per evitare il congelamento, in attesa che alla colonna in ritirata fosse dato l’ordine di ripartire. Con i compagni si sforza di parlare della solennità natalizia, ripensa ai pranzi festivi nella sua casa, alle premure di sua madre: «La mamma, sebbene le scrivessi che non avevo bisogno di nulla, continuava a mandarmi delle ghiottonerie. Mi aveva spedito cioccolata, miele, torrone, che avevo conservato per Natale, ma quando era arrivato l’ordine di ritirata avevo dovuto abbandonare tutto». La situazione è tale da indurre molti a pensare che non se ne possa uscire vivi, tuttavia Corti non perde la speranza: «Io sono sempre stato un “paolotto” – come si dice nella mia terra, la Brianza – cioè un cattolico praticante, quindi pregavo spesso. Mentre ero al fronte russo, sapevo che a casa mia madre pregava per me ed ero certo che le sue preghiere, davanti a Dio, valessero molto più delle mie; così, soprattutto in quei giorni di tragedia, aggiungevo le mie preghiere a quelle di mia madre: ho sempre sperato, perché contavo sulle sue preghiere». In quella notte di vigilia il giovane, sfiancato dal gelo e dai combattimenti, si affida alla Madonna, consegnandole ciò che gli resta da vivere: «Fino a quel momento ero sicuro che, quando avessi preso una decisione, la avrei mantenuta. Invece in quei giorni di paura mi ero scoperto non molto diverso dagli altri, così non ho fatto un voto ma una promessa solenne, che ho mantenuto per tutta la vita dandomi da fare per la verità: mi sono impegnato a spendere l’esistenza per quel Regno di amore tra gli uomini a cui si riferisce il Padre nostro».
Per Corti è un Natale in cui l’abisso della sofferenza si fa assoluto. Al tempo stesso, però, è un momento di verità profondissimo e spoglio, che nel dolore rende presente quanto aveva imparato dagli insegnamenti di fede ricevuti in famiglia: «La mamma ci aveva insegnato che Natale è il giorno della nascita del Signore». Così, senza nessuno di quei fronzoli che distraggono dal senso reale della festa.
In una quotidiana educazione alla fede nutrita dal rosario serale recitato in casa – «in quei giorni di festa lo si diceva con maggiore impegno», ricorda – si ritrovano le prime memorie natalizie dello scrittore, emblematiche di una solennità vissuta in modo essenziale: «Il giorno di Natale, fin da quando i miei fratelli e io avevamo due o tre anni, ci portavano a Messa: ho un barlume di memoria della figura di mia madre che mi prende in braccio durante la celebrazione… dovevo essere proprio piccolo».
E i festeggiamenti? «In casa mia il Natale è sempre stato una gran festa di famiglia: con i parenti ci riunivamo sempre da noi o da mio zio Enrico, che abitava vicino a noi: eravamo in tanti (dodici solo della mia famiglia) e si facevano dei pranzi formidabili… in verità, dato che mio padre amava il pesce, la mamma, per compiacerlo, nelle grandi occasioni preparava dei pesci grandi, che quasi non ci stavano nei piatti: mi pare venissero dal lago di Garda. A me il pesce non piace affatto, così lo mangiavo con poco entusiasmo, però era un incidente minore nella bellezza di quella festa. Per fortuna poi c’era sempre il panettone…».
Più di ogni cosa, però, la festa era l’attesa della vigilia: «La sera prima di Natale – come quella prima dell’Epifania – era impegnata nei discorsi di noi piccoli sui doni. Per i Re Magi lasciavamo del pane sul davanzale della finestra; ci affascinava l’idea dei cammelli che li portavano e avremmo voluto preparare anche del fieno per loro, ma eravamo troppo piccoli…». Il primo regalo natalizio rimasto nella memoria di Corti è un cavallo a dondolo, con cui giocava insieme al fratello Achille. Altri ne sono seguiti nel tempo, ma uno ha suscitato un entusiasmo che dura ancora oggi: «Desideravo da tempo avere una pecora, da far pascolare nel prato di casa: quando avevo 12 o 13 anni il papà me ne ha regalato una proprio carina, di dimensioni non troppo grosse. Quello è forse stato il regalo più bello che ho ricevuto».
Com’è oggi il Natale di Eugenio Corti? L’attesa è – come sempre – operosa, per tener fede a quella promessa di offrire tutte le proprie forze per il Regno di Dio. Per questo, mentre l’autunno inoltrato fa capolino alla finestra del suo studio, lo scrittore continua a combattere la buona battaglia nel modo a lui più congeniale: «Sto concludendo un racconto in memoria di Vladimir Dimitrievic, il mio editore francese scomparso alcuni mesi fa. Ho immaginato che Vasilij Grossman e Vladimir (che aveva sottratto alla polizia sovietica il suo romanzo Vita e destino per pubblicarlo in Occidente) vengano a trovarmi in sogno e parlino con me della bellezza, dell’arte, del paradiso».
Il punto di unità tra il tempo e l’eterno, tra il vivere e il morire, è la presenza in terra del Dio fatto bambino. Un segno straordinario, che viene a portare la salvezza nei luoghi e nei gesti della nostra quotidianità. Per questo nel giorno di Natale Corti manterrà le abitudini della tradizione: «Non abbiamo mai organizzato nulla di straordinario: festeggeremo in casa, come sempre; negli ultimi anni abbiamo più volte accolto l’invito di mia sorella Caterina a pranzare con la sua famiglia: magari accadrà anche quest’anno».
La solennità natalizia è ciò che dà senso ed energia a tutti i giorni dell’anno: sta in questa coscienza la radice della sobrietà domestica con cui Corti vive la festa. Riflettendo sul modo in cui troppo spesso si consuma il Natale, considera: «Il mondo intorno a noi si è sempre più allontanato dalla realtà cristiana e il Natale è considerato una festa come le altre, in una visione che ha perso la memoria di ciò che è accaduto. Anche questa festività finisce spesso per essere vista in modo pagano, come un’occasione per mangiare e bere di più. Noi cristiani dobbiamo cercare con maggiore impegno di vivere e ricordare quale sia il vero significato del Natale: la celebrazione della venuta del Signore».
Va dritto all’essenziale, lo scrittore: da quel giorno nasce la speranza che ci fa vivere. Ma qual è la speranza per Eugenio Corti, in questo nuovo Natale che la provvidenza regala al suo lungo cammino (e alla gratitudine dei suoi lettori)? Riflette, non elude la domanda ma non vuole sciupare le parole in una formula: «La speranza… io la ripongo sempre in Dio: è la forza che abbiamo in Dio, l’aiuto che ci dà. La speranza è la certezza della presenza di Dio nella storia, che niente mai potrà togliere».

 

 

 

IL TIMONE n. 108 – Anno XIII – Dicembre 2011 – pag. 12 – 13
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