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11.12.2024

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Natale nella valle della morte
31 Gennaio 2014

Natale nella valle della morte

 

 

 

Natale di guerra del 1942 del nostro collaboratore Eugenio Corti, com’è descritto nel suo diario I più non ritornano.
Di questo libro (edito da Mursia) che è uscito nel 1947, si sono susseguite ogni pochi anni nuove edizioni fino ad oggi.
Nel 1997 è uscita la traduzione americana, e nel settembre di quest’anno la traduzione francese. Jean-Francois Livi, professore alla Sorbona, che ne ha curato la prefazione, lo definisce “ben più che una semplice cronaca, per quanto ammirabile…
Il mistero della sofferenza individuale e collettiva lascia intravedere, al di là del silenzio apparente di Dio, una sorta di riparazione per le colpe che l’uomo ha commesso… “.
Appunto in questo Corti individua il significato della guerra: quei soldati sono morti e hanno sofferto per le colpe di tutti. Nelle pagine che qui proponiamo i reparti italiani e tedeschi, accerchiati dai russi, sono fermi da tre giorni dentro una vallata poco profonda nella quale sorge il misero villaggio di Arbusov, e nelle vallette che vi confluiscono. A causa dell’incessante fuoco nemico la neve è ormai tutta disseminata di morti, tanto che i soldati in seguito la chiameranno la “Valle della morte”.
Questa è la notte di Natale, il freddo (siamo sui 20-30 gradi sotto zero) è tremendo. Il reparto di Corti si trova in una delle vallette minori, mescolato ad altri reparti. Col sottotenente Corti c’è il suo amico sottotenente Mario Bellini.

Il silenzio era tornato nella valletta, fra i neri tronchi gelati. Uomini giacevano a centinaia qua e là sulla neve. Altri, ugualmente numerosi, erano invece ancora in piedi. Qualche figura grigia vagava nel buio, cercando invano un cantuccio meno tormentoso per dormirvi.
Con Bellini raggiunsi il pagliaio situato poco fuori l’imbocco.
Questioni con dei tedeschi che non volevano prendessimo la paglia: noi crepassimo pure, purché loro non venissero disturbati.
Di ritorno alla valletta con le nostre due coperte piene di paglia.
Ne stendemmo una parte sul ghiaccio vetrato del torrente. Giù anche noi, poi sopra le coperte, e sopra la restante paglia. Avevo imparato a mettermi le calze bagnate vicino al corpo, sotto la giubba, per non trovarle al risveglio ridotte a blocchetti di ghiaccio.
Ci addormentammo rannicchiati uno contro l’altro.
Era questa – ricordiamolo – la notte di Natale, quella vera. Ci svegliammo dopo non molto. Il freddo era intensissimo. Qualcuno, mentre noi dormivamo, ci aveva rubata la paglia che stava sopra le coperte.
Cercammo di rimetterci in sesto e, sempre rannicchiati uno contro l’altro, riuscimmo ad addormentarci di nuovo.
Ci svegliammo nuovamente di lì a poco, perché il freddo mostruoso ci faceva tremare in tutto il corpo.
Con le coperte sulle spalle, portammo per un po’ il nostro doloroso sfinimento avanti e indietro nelle tenebre, ginnasticando con insistenza le membra per riprendere calore. Il soffio della katiuscia.
Bocconi sulla neve. Una parte dei razzi scoppiò, con forsennato fragore, nella valletta intorno a noi: il buio era pieno delle velocissime sferette incandescenti. “Signore aiutami!”. Ma la bocca era chiusa. Un colpo ci esplose quasi addosso, tanto che venimmo investiti – specie sulla testa – da neve mista a terriccio. Al fine ci rialzammo; cercammo di sorriderci.
Quando fummo di ritorno al nostro posto, tutta la paglia era sparita.
Riuscimmo ad addormentarci seduti su degli arbusti accomodati alla meglio sopra la neve. Circa le ventuno ci svegliammo di nuovo. Il freddo era tale che mi pareva d’impazzire. Ci alzammo ancora una volta in piedi. Ed ecco che, con fare strano, s’avvicinò un ufficiale, il quale disse di avere “un grave sospetto” da comunicarci. Lì per lì pensai delirasse. Ci disse: “Secondo me i tedeschi se ne sono andati, abbandonando gli italiani!”.
Volevo rispondergli in malo modo.

Comunque eravamo in piedi, e dovevamo muoverci per riscaldarci.
Decidemmo perciò, Bellini e io, di dare un’occhiata di controllo. Ci avviammo fuori della valletta, al pagliaio dove sapevamo che dormiva una squadra tedesca. Qui ci rendemmo conto, con costernazione, che il sospetto dell’ufficiale era fondato: i tedeschi se n’erano andati.
Soltanto, non era giusto dire che essi avevano abbandonato gli italiani, perché la maggior parte dei nostri compatrioti se n’era andata con loro. Di questo però noi ci saremmo resi conto soltanto qualche ora più tardi.
Abbandonati! Nella nostra valletta erano rimasti forse millecinquecento uomini, ma tutti o quasi senza armi o senza munizioni. Che massacro tra poco…
Laggiù, davanti a noi, pesava sul paese di Arbusov un silenzio impenetrabile. Tentavamo coi nostri occhi di forare le tenebre, ma non scorgevamo altro che il bagliore rosso di qualche capanna isolata che bruciava, e il suo contenuto alone sulla neve.
Risolvemmo, Bellini ed io, di svegliare con urgenza tutti gli ufficiali presenti nella valletta, e con loro concertare il ad farsi.
Di lì a poco, corsa la voce, eravamo riuniti in un gruppetto di setto o otto ufficiali.
Ci incamminammo e uscimmo nuovamente dalla valletta; ma mentre imboccavamo la strada del fondovalle, udimmo levarsi all’improvviso dentro il paese, proprio davanti a noi, un frastuono di fucileria e di armi automatiche: “Urrà… Savoia… urrà…”. Poi silenzio. Quindi nuovamente grida e sparatorie in altri punti del paese. I russi stavano invadendo Arbusov, e una parte almeno degli italiani che vi si trovavano cercava di cadere con le armi In pugno.
Noi ufficiali rimasti cominciammo a discutere un piano d’azione; intanto venivamo risalendo passo passo la valletta. Mario sosteneva che avremmo dovuto organizzarci a colonna, e puntare verso sud-ovest.
Gli opponevo che non avevamo una sola bussola, ed eravamo pressoché disarmati. Ci veniva dietro un centinaio circa di soldati. Tutti gli altri, oltre un migliaio, giacevano in branchi neri sulla neve. Più d’uno, sfinito e senza volontà, teneva lo scuro viso levato verso di noi, a guardarci passare.
La valletta, tutta svolta a zig zag, andava lentamente restringendosi.
Finimmo col renderci conto che era lunga alcuni chilometri.
Camminavamo immersi in un silenzio raccapricciante. Dal fondo battuto, ci eravamo accorti che altra gente – forse non poca – era passata prima di noi. Contribuì a farci proseguire una batteria – con certezza tedesca – che, uscita dalla vallata maggiore, iniziò a un tratto il fuoco di sbarramento all’indietro verso Arbusov: le vampate dei suoi colpi in partenza illuminavano il cielo proprio là dove sembravano portarci i nostri passi.
Tutto era bianco e opaco nella notte alta. Solo nei punti in cui le pareti della valletta erano più erte, si scorgeva lo scuro della terra scoperta.
Il mio pensiero era tutto preghiera.
Alfine le pareti divennero bassissime, e la valletta cessò.
Una volta affiorati, incappammo prima in uno, poi in altri soldati italiani incapaci di proseguire, accasciati al margine di una larga pista di neve battuta.
Eravamo capitati sulla strada della colonna! Non solo, ma la colonna non era lontana! Si trovava infatti come ci saremmo poi resi conto in sosta qualche chilometro più avanti. Nel mio cuore la pena per quei poveri esseri, che lì a terra lottavano inutilmente contro la morte, venne soffocata da una frenetica esultanza per ciò che la loro presenza significava. Io so cosa devono provare coloro che, più volte sommersi dalle onde, alla fine, quando hanno ormai perduta la speranza, riescono ad aggrapparsi ad un sostegno!
Intanto seguitavamo a camminare.
E col pensiero ognuno di noi tornava di continuo agli uomini rimasti nella valletta. Ma nessuno ne parlava. Da Arbusov, ormai lontana, giungevano adesso rumori di un combattimento disperato. Dovevo risolvermi. Tutto il mio essere si ribellava e urlava contro una simile risoluzione. Provate a dire al naufrago di abbandonare, anche per poco, la tavola cui si è aggrappato!
“Aiutami Signore!”. Riuscii a dominarmi con un duro sforzo di volontà: “Vado io”. Mario Bellini mi prese per un braccio, voleva dissuadermi. “Noi siamo ufficiali!” gli ricordai. Vinse se stesso e si mise al mio fianco. Venne con noi anche il tenente medico Vincenzo Candela: per spirito di generosità, per non lasciarci andare soli. Indietro a grandi passi nella notte, sforzandoci di percorrere quei pochi chilometri nel minor tempo possibile.
Giungemmo infine ai branchi di uomini. Con grida e strattoni li mettemmo in piedi e li incolonnammo per trascinarli via, verso la salvezza.
Di nuovo in cammino; l’animo teso sulla neve a scrutare se il nemico ci avesse – come fortemente temevamo – interrotta la strada.
Quando Dio volle, potemmo unire la schiera che ci seguiva all’altra tanto più grande della colonna, che trovammo alfine, gigantesca macchia nera e ferma, sul versante di una collina.
In tal modo lasciammo la Valle della Morte: il paese era semidistrutto, molte isbe bruciate, e molti civili, vecchi, donne, bambini, uccisi dalla battaglia o dall’odio dei tedeschi.
Ci lasciammo indietro una vallata disseminata di morti: con i morti tedeschi, apatici, e i russi, in qualche punto fucilati in file regolari di dieci, i nostri morti. I nostri, di gran lunga i più numerosi: uccisi dal bombardamento nemico, o caduti a ondate negli assalti alla baionetta, morti per gli stenti, morti di freddo.
Pensiero forse ancora più angosciante delle migliaia di morti, le centinaia e centinaia di feriti abbandonati sopra la neve, su poca paglia.

 

IL TIMONE N. 28 – ANNO V – Novembre/Dicembre 2003 – pag. 43 – 45

 

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