Per alcuni non bisognerebbe curare i neonati di 22-23 settimane, ma lasciarli morire.
Un neonatologo spiega che la cura di un prematuro non può essere sospesa a priori.
A nessuno che abbia l’occasione di curare questi piccolissimi bambini-feti viene il dubbio se siano persone o meno.
Nel febbraio 2006 a Firenze è stato proposto un documento per regolare le terapie intensive per i bimbi nati prematurissimi, a rischio di disabilità. Riportando la notizia, il quotidiano La Repubblica titolava: «Fermiamo le cure intensive per i neonati troppo prematuri». E scriveva: «Niente cure intensive per il neonato di 22-23 settimane, ma solo un accompagnamento dolce alla morte; trattamento intensivo per quello di 24 settimane solo se la rianimazione produce sforzi respiratori spontanei, frequenza cardiaca, ripresa del colorito».
Queste affermazioni hanno colto di sorpresa i membri delle società scientifiche i cui presidenti erano tra i firmatari del documento in questione, soprattutto per tre punti:
1. a 23 settimane 3-4 neonati su 10 sopravvivono, di questi molti avranno varie disabilità; a 24 settimane il tasso di sopravvivenza sale e cala il rischio di disabilità, dunque a 23-24 settimane non siamo per forza davanti a neonati morenti.
2. chi potrebbe giurare sul tempo esatto trascorso dal concepimento del feto?
3. la prognosi di un neonato resta incerta per mesi. Sappiamo che può sorgere il dubbio se sia corretto curare questi bambini, conoscendo l’ipotetico rischio che questi hanno di vivere con un handicap, ma è un dubbio di rapida risoluzione: qualunque paziente ha diritto ad essere assistito nel migliore dei modi, indipendentemente dal livello di abilità o disabilità che egli abbia. Anche negli Stati Uniti fu sollevato questo dibattito: è giusto rianimare un bambino Down come si rianimerebbe qualunque altro bambino? E la risposta della Corte Suprema fu: assolutamente sì.
Un recente studio svedese mostra che negli ospedali dove si rianimano i bambini al limite della sopravvivenza, la percentuale di bambini senza gravi patologie è maggiore.
E oltre 300 firme di neonatologi, ostetrici e pediatri sono state raccolte in pochi giorni, con un semplice pas-sa-parola, per sostenere in una lettera aperta che «non esiste una “vita non giusta”, ogni nato ha diritto alle cure, e ogni famiglia di persona disabile ha già dalla nascita diritto alla massima assistenza da parte della Società e dello Stato. Queste cure si devono offrire a chiunque abbia serie possibilità di vita in seguito al nostro intervento, e un neonato dalle 23 settimane di età gestazionale ha serie possibilità di sopravvivere trattandolo come qualunque altro paziente. La missione del medico è sempre quella di curare e la rinuncia a salvare una vita umana in previsione di un ipotetico handicap è sempre una sconfitta». Cosa vale la posizione di 300 medici specialisti? Significa una fetta importante del settore, un punto di vista qualificato.
«Pensare che limitare la rianimazione alla nascita dei neonati di 23-24 settimane risolva i problema dell’handicap – ribadisce il prof Firmino Rubaltelli, primario neonatologo dell’Ospedale Careggi di Firenze – è una semplificazione ingenua. Recenti casistiche mostrano come circa il 40 per cento dei nati a 23 settimane di gravidanza sopravviva. Sospendere le cure per modesti ritardi intellettuali e motori futuri obbligherebbe a comportarsi nella stessa maniera con neonati con la sindrome di Down, cosa inconcepibile sia dal punto di vista etico che di legge». E aggiunge Dino Pedrotti, già primario neonatologo di Trento: «Nel mondo non si rianimano neonati di 22 settimane, ma è da mettere in seria discussione il non intervento a 23 settimane, un’età in cui nei centri migliori la sopravvivenza può arrivare a superare il 30%, sia pur con esiti gravi (…) nel 20-60% dei casi. Questo significa che chi ha risultati peggiori deve impegnarsi a ridurre gli esiti almeno ai livelli medi. Oggi si interviene su una coppia di neonati siamesi o su una grave cardiopatia congenita, anche se sono altissimi i rischi di morte e di menomazioni, pensando che l’esperienza acquisita serva per futuri interventi. Ribadisco un altro concetto: se un adulto in un incidente ha il 20% di possibilità di sopravvivere e il 50% di probabilità di avere danni neurologici, lo si rianima. Il neonato ha meno diritti di una persona “grande”?».
La rivista della Neonatologia Trentina mostra con orgoglio le foto e le lettere di due ragazze ormai grandi, nate di 23 settimane, e Antonio Boldrini, primario neonatologo di Pisa scrive: «A nome di Giorgia, bambina di 23 settimane – che oggi ha 6 anni e sta benissimo anche da un punto di vista neuro-motorio – e a nome di tutti quei neonati nati sotto alle 28 settimane per i quali, fino a qualche anno fa, i “sacri testi” suggerivano di non iniziare alcuna attività rianimatoria per evitare che nei sopravvissuti potessero comparire handicap più o meno gravi, a nome di tutti questi, io dissento totalmente dallo spirito di questo documento».
Lungi da voler banalizzare l’estrema prematurità, che resta un grave rischio per la vita e la salute, la cura del prematuro non può essere sospesa «a priori», ma accanto a questo imperativo bisogna che cambi la cultura verso la sofferenza e si incrementino in maniera importante i fondi che gli Stati destinano alle spese per la disabilità e al sostegno del volontariato. C’è nella cultura occidentale una tendenza a voler censurare la sofferenza negandole la cittadinanza se ancora non si è verificata la nascita o se siamo di fronte ad una grave disabilità. Sicuramente chi ha stilato il documento fiorentino non vuole questo e anzi abbiamo notizie che il documento in questione è stato presto migliorato: a nessuno che nel suo lavoro abbia l’occasione di curare e carezzare questi piccolissimi bambini-feti viene il dubbio se siano persone o meno e l’amore verso il bambino disabile è certamente nel cuore di tutti coloro che curano i piccolissimi pazienti. Ma il rischio che un po’ alla volta penetri una mentalità dettata dalla paura del diverso e della malattia aleggia in ogni campo.
Urge far capire che i limiti della scienza si espandono e fanno vedere cose prima impensabili: l’umanità del bambino di 4 etti, il dolore del feto, la complessità umanissima dell’embrione.
RICORDA
«Il professore Antonio Boldrini, neonatologo di Pisa e vicepresidente della Sezione Regionale Sin Toscana chiarisce […] “chi decide della qualità della vita? Cos’è un essere concepito da due esseri umani se non un altro essere umano, che in questo caso chiede di essere aiutato?”. Boldrini ama ripetere che il giorno in cui nascerà un gatto da due esseri umani cambierà completamente modo di pensare. “Ma finché nasce un essere umano, anche simile a un quadro di Picasso, non straccio la tela per il solo fatto di non capirla: questa non è eutanasia, è ipocrisia”».
(Caterina Gioielli, Viva Erode? Ancora non sei nato e già ti dan per morto, in Tempi, n. 11, 09.03.2006).
BIBLIOGRAFIA
L.B. McCullough, Government intervention: «the Baby Doe rule», in New Physician 32, 5 (1983), pp. 47-8.
S. Hakansson, Proactive Management Promotes Outcome in Extremely Preterm Infants: A Popula-tion-Based Comparison of Two Perinatal Management Strategies, in Pediatrics 114, 1, (2004), pp. 58-64.
D. Pedrotti, È giusto o no assistere i nati a 23 settimane?, in Neonatologia Trentina 17, 1-2 (2006), p. 10.
L. Doyal – D. Wilsher, Towards guidelines for withholding and withdrawal of life prolonging treatment in neonatal medicine, in Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed 70, 1 (1994), pp. 66-70. Caterina Gioielli, Viva Erode? Ancora non sei nato e già ti dan per morto, in Tempi, n.11, 09.03.2006,
http://www.tempi.it/archivio_dett.aspx?idarchivio=9708
IL TIMONE – N. 56 – ANNO VIII – Settembre/Ottobre 2006 – pag. 54 – 55