Le prove – molte e fondate – della ti esistenza di Cristo offerte dalla storia. d e Anche Roma si accorge ben presto a del fatto cristiano. E gli storici ebrei e a (i pagani di quel tempo parlano di Gesù.
L’esistenza storica di Cristo non può essere messa in dubbio da nessuno. Egli è vissuto in una delle epoche meglio conosciute della storia romana, fra l’impero di Augusta e quello di Tiberio, in cui, anche in una provincia come la Giudea e anche in persone semplici e prive di una cultura raffinata, la reazione al miracolo era tutt’altro che scontata, come rivelano la prima reazione di Marta all’ordine di Gesù di togliere la pietra che chiudeva la tomba di Lazzaro, o quella degli Apostoli all’annuncio della Risurrezione portato dalle donne.
Pretendere di demitizzare i Vangeli, come se ci trovassimo di fronte alle leggende di epoche primitive, è il risultato di un pregiudizio che confonde il “probabile”, inteso come ciò di cui si possono portare le prove, che è oggetto della storia, col “verosimile”, che dipende dall’opinione corrente. E che gli autori dei Vangeli canonici intendevano fare storia e non raccontare favole, attenendosi, secondo il metodo della storiografia antica, al racconto di testimoni oculari e bene informati degli avvenimenti, ce lo rivela non solo l’elezione di Mattia, scelto al posto di Giuda fra quelli che erano stati con Gesù “dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui Egli ascese al cielo” (At 1, 21 sgg), ma anche l’insistenza sul concetto di testimonianza (martys, martyrion, martyria) e l’uso di una terminologia caratteristica dell’ambiente giudiziario e storiografico nei Sinottici e in Giovanni, e, infine, il prologo stesso di Luca, l’unico greco fra gli Evangelisti, che, dedicando il suo Vangelo ad un cavaliere romano, l’egregius (kratìstos) Teofilo, enuncia il metodo della storiografia scientifica greca: “Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (pragmata), che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati quelli che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (autopta) e servi della Parola, ho deciso anch’io, dopo aver seguito tutto attentamente con senso critico (akribOs), di scrivertene ordinatamente (kathexés), perché tu conosca la sicurezza (asphaleia) dei discorsi che ti sono stati insegnati a viva voce (kathechétes)” (Lc 1,1-4): c’è l’autopsia, fondamentale da Erodoto in poi per il racconto storico e l’esercizio della critica (akribeia), teorizzato da Tucidide, che dà certezza storica (asphaleia) all’insegnamento orale.
Nell’esortazione finale di Gesù agli Apostoli, là dove Matteo (28,19) dice “Ammaestrate tutti i popoli” e Marco (16,15) “Annunziate (keryxate) il Vangelo a tutta la creazione”, Luca (24,48) dice “Mi sarete testimoni (martyres)”: tra il kerigma, l’annuncio evangelico, e la “testimonianza”, caratteristica della storia, c’è dunque identità: il kerigma non esclude l’aderenza alla realtà storica degii avvenimenti (pragmata), oggetto deli’insegnamento e dell’annunzio, che assume fin dall’inizio la forma tipica della storia, quella di un racconto nel quale è fondamentale l’esigenza della attendibilità.
Il Cristianesimo è una religione fondata su un avvenimento storico (Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo) ed è pertanto pienamente comprensibile che al racconto storico si sia affidata fin dall’inizio la catechesi orale e, molto presto (Papia di Gerapoli e Clemente di Alessandria parlavano del 42 d.C. per il Vangelo di Marco), la stesura scritta: su richiesta – diceva Clemente – dei cavalieri e dei Cesariani che a Roma avevano ascoltato, al tempo di Claudio, la predicazione di Pietro. Romani e greci erano abituati alla lettura ed è naturale che abbiano chiesto di poter leggere per iscritto ciò che avevano ascoltato.
Se le fonti cristiane sono, come è naturale, le più importanti per la conoscenza della figura storica di Cristo, non mancano neppure, già nel primo secolo, importanti fonti giudaiche e pagane: parlava certamente di Gesù Giuseppe Flavio, che in Antichità giudaiche (XX, 199 sgg.) ricordava sotto il 62 d.C. l’uccisione ad opera del sommo sacerdote Ananos di Giuseppe Minore, “fratello di Gesù detto il Cristo”.
L’autenticità sicura di questo passo fa supporre che Flavio Giuseppe avesse già parlato di Gesù precedentemente e ha indotto molti a riprendere in considerazione il discusso testimonium flavianum (Antichità giudaiche XVIII, 64), in cui si parla della crocifissione, su istigazione dei capi giudei e ad opera di Pilato, di Gesù “uomo saggio, se si deve dirlo un uomo, operatore di miracoli, maestro di molti, Giudei e Greci che ne hanno accolto l’insegnamento”; della sua apparizione “a coloro che lo avevano amato prima, il terzo giorno dopo la sua morte”; dei Cristiani che prendono il nome da lui. Oggi, eliminate le interpolazioni dovute probabilmente all’inserimento nel testo di glosse marginali di origine cristiana (tale potrebbe essere l’affermazione “Egli era il Cristo”), si tende ad affermare l’autenticità della testimonianza di Giuseppe.
Pagano era invece Mara Bar Serapion, uno storico siriano che, scrivendo al figlio, subito dopo la distruzione di Gerusalemme, sembra nel 73 d.C., vedeva in tale distruzione la punizione divina per “il saggio re” degli Ebrei da loro giustiziato.
E pagano era Tacito, che parlando dell’incendio neroniano del 64 e della persecuzione dei Cristiani (Annales XV,44,5) dice che il loro nome viene da Cristo “che era stato messo a morte dal procuratore Ponzio Pilato, sotto l’impero di Tiberio”. Tacito scrive agli inizi del secondo secolo, ma la sua fonte per questo passo è, probabilmente, Plinio il Vecchio, morto nel 79. La notizia sembra presupporre la conoscenza della relazione di Pilato a Tiberio: di essa parlano nel secondo secolo Giustino Martire e Tertulliano.
Studi recenti rivelano che il Cristianesimo era ben noto, a Roma, nel primo secolo: parodie di scene evangeliche sono presenti nel Satyricon di Petronio e allusioni piene di simpatie compaiono invece negli stoici dell’opposizione a Nerone.
Diversamente da quello che si affermava in passato, sembra che i Romani si siano accorti abbastanza presto del fatto cristiano.
Natale
“In primo luogo, dunque, considerate anche voi con l’Apostolo stupito e ammirato quanto grande sia Colui che viene tra noi: secondo la testimonianza di Gabriele Egli è il Figliuolo dell’Altissimo e come Lui Altissimo. Non è certo lecito supporre che il Figlio di Dio sia degenerare dal Padre, ma lo si deve dire del tutto a Lui uguale in altezza e dignità. E chi non sa che i figli dei Principi sono Principi e i figli dei Re sono Re?”.
(San bernardo di Chiaravalle, Sermoni, Pia Società San Paolo, Alba 1946, pp. 24-45).
“Ma io vorrei sapere perché Dio è venuto a noi, e non siamo piuttosto andati noi a lui. Eravamo noi i bisognosi, e d’altra parte non è usanza dei ricchi andare dai poveri, anche se vogliono dar loro qualcosa. Così è, fratelli; dovevamo noi andare a lui, ma vi era un doppio impedimento: i nostri occhi erano offuscati, ed egli abita una luce inaccessibile; giacendo paralitici, non potevamo aggiungere la sua divina altezza. Pertanto, il benignissimo Salvatore e medico delle anime attenuò il suo immenso splendore; si avvolse quasi in un velo, assumendo un corpo certo glorioso e purissimo da ogni macchia”.
(San Bernardo di Chiaravalle, Sermoni, Pia Società San Paolo, Alba 1946, p. 33).
NOI CREDIAMO
“(…) Noi non avremmo potuto vincere l’autore del peccato e della morte, se non avesse assunto e fatta sua la nostra natura Colui che il peccato non avrebbe potuto contaminare e la morte avere in suo dominio. Egli infatti fu concepito dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Madre, che lo diede alla luce nella sua integrità verginale, così come senza diminuzione della sua verginità lo aveva concepito. ..
Il Figlio di Dio, scendendo dalla sede dei cieli senza cessare di essere partecipe della gloria del Padre, fa l’ingresso in questo basso mondo, generato secondo un ordine ed una nascita del tutto nuovi: secondo un ordine perché, invisibile nella sua natura divina, si fece visibile nella nostra; perché, incomprensibile, volle esser compreso; fuori del tempo, cominciò ad esistere nel tempo; Signore di tutte le cose, assunse la natura di servo, nascondendo l’immensità della sua maestà; incapace di soffrire perché Dio, non disdegnò di farsi uomo soggetto alla sofferenza; infine perché, immortale, volle sottoporsi alle leggi della morte. Generato secondo una nuova nascita, perché la verginità inviolata non conobbe passione e somministrò la materia della carne. Dalla Madre il Signore ha assunto la natura, non la colpa. E nel Signore nostro Gesù Cristo, generato dal seno della Vergine, la nascita ammirabile non rende la natura dissimile dalla nostra. Colui, infatti, che è vero Dio, quegli è anche vero uomo. In questa unione non vi è nulla di incongruente, trovandosi insieme contemporaneamente la bassezza dell’uomo e l’altezza della divinità. Come, infatti, Dio non muta per la sua misericordia, così l’uomo non viene annullato dalla dignità divina. Ognuna delle due nature, infatti, opera insieme con l’altra ciò che le è proprio: e cioè il Verbo, quello che è del Verbo; la carne, invece, quello che è della carne. l’uno brilla per i suoi miracoli, l’altra sottostà alle ingiurie. E come al Verbo non viene meno l’uguaglianza nella gloria paterna, così la carne non abbandona la natura umana”.
(Papa Leone I Magno, Lettera Lectis dilectionis, 13 giugno 649).
Dossier: Natale
IL TIMONE N. 28 – ANNO V – Novembre/Dicembre 2003 – pag. 32 – 33