Mentì dicendo di essere rimasta incinta dopo una violenza di gruppo. L’ex paladina degli abortisti, convertita al cattolicesimo, guida ora la lotta delle donne “pentite di avere abortito”. Purtroppo la Corte Suprema ha respinto il ricorso da lei presentato, ma la sua battaglia per la vita continua.
L’ineffabile segretario radicale Daniele Capezzone si serve di dati fasulli per dar forza alle proprie tesi strampalate. Così sostiene che la legge 194 sull’interruzione di gravidanza ha fatto calare gli aborti clandestini del 79%. Vuole cioè convincerci che si conosca il numero preciso degli aborti clandestini, sia precedenti il 1978 (anno di entrata in vigore della legge) che attuali, come se non fossero, appunto, clandestini! È una vecchia tattica che dura da più di 30 anni. Da quando cioè, nel 1971 , l’allora partito socialista presentò al Senato una proposta per l’introduzione dell’aborto legale, libero e gratuito, affermando che vi erano in Italia tra i 2 e i 3 milioni di aborti annui, e che circa 20 mila donne l’anno morivano a causa di questi interventi. Nel successivo progetto di legge, sempre socialista, presentato alla Camera in quello stesso anno, il15 ottobre, il numero degli aborti annui rimaneva stabile, mentre quello delle donne morte per pratiche aborti ve clandestine saliva, chissà come, a 25 mila. Tali cifre venivano sbandierate come attendibili da numerosi giornali (Corriere della sera del 10 settembre 1976: da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’anno; Il Giorno del 7 settembre 1972: da 3 a 4 milioni l’anno.. .). Anche sotto la pressione di queste fandonie nacque la legge che legalizzò in Italia l’aborto. Se le cifre suddette fossero state vere, una volta divenuto lecito e gratuito l’aborto si sarebbe dovuto diffondere ancor di più. Invece nel 1979 quelli legali non furono né 1, né 4 milioni, ma «solo» 187.752! Quanto poi alle donne vittime di pratiche clandestine, basterebbe consultare il Compendio statistico italiano del 197 4: vi si legge che in Italia, nell’intero anno, sono morte 9.914 donne tra il14 e i 44 anni, cioè in età feconda. Fossero decedute anche tutte per aborto clandestino, cosa assurda, non sarebbero comunque né 20 mila né 25 mila. Che a far da volano alle campagne pro aborto, in Italia come in America e in altri Paesi, furono una serie di menzogne premeditate, lo confermano personaggi insospettabili, come per esempio Norma McCorvey, oggi 53enne, la donna che «provocò» la legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti. Con una causa da lei intentata, Norma fu infatti la protagonista della battaglia legale sfociata il 22 gennaio 1973 nella storica sentenza della Corte suprema nota come «Roe contro Wade>,: lei, a quel tempo, si nascondeva sotto l’identità’ fittizia di «Jane Roe», Henry Wade era il procuratore distrettuale di Dallas, in Texas. Il suo caso pietoso di ragazza povera, vissuta tra riformatorio e lavori precari, amanti ed Lsd, venne usato dagli abortisti con estrema spregiudicatezza, per manipolare l’opinione pubblica. Norma era nubile, indigente, incinta del terzo figlio. Si puntò sul sentimentalismo e sulla sua storia personale, arricchendola di colorite invenzioni, come il fatto che fosse stata vittima nientemeno che di uno stupro di gruppo. Ma non era vero.
A convincere l’allora giovanissima Norma a raccontare il falso furono alcune agguerrite avvocatesse abortiste, disposte a tutto pur di farle interrompere la terza gravidanza, dopo averi a spinta a dare in adozione i due figli avuti in precedenza. In realtà la sentenza, favorevole a «Jane Roe» e che le avrebbe permesso di disfarsi legalmente della creatura che portava in grembo, arrivò troppo tardi per lei: nel frattempo la McCorvey, che a dire il vero non aveva mai avuto seriamente l’intenzione di abortire, aveva partorito e dato in affidamento il terzo figlio. Ma il risultato che si voleva ottenere era stato, ahimè, raggiunto. Grazie a lei (che oggi ha cambiato barricata e si batte per l’abolizione della legge), l’America di James Dean, di Kerouac, della New Age e della beat generation, aveva potuto avviare – con il consenso di un’opinione pubblica pilotata e ingannata – la legalizzazione dell’aborto e la sua diffusione in tutto il mondo. Finanziandolo e promuovendolo in Europa (tramite associazioni di fami/y planning e agenzie dell’Onu quali l’Unfpa, l’Unicef e altre), ma soprattutto nel Terzo mondo e in America Latina, fino ad attuare piani di sterilizzazione forzata. I termini per abortire subiscono progressivi allargamenti. Dopo l’America l’aborto viene introdotto in Germania, in Francia (1975) e gradualmente in quasi tutti i Paesi d’Europa. Nata dal matrimonio fallito tra una cameriera e un militare, Norma ha avuto una vita terribile, cominciata con un’infanzia costellata di maltrattamenti e proseguita con un’esistenza di stenti, un matrimonio forzato e presto finito e varie esperienze con droga e alcool. Per anni lesbica dichiarata, nel 1989, quando decise di uscire allo scoperto per rivelare la sua vera identità (cioè di essere la misteriosa Jane Roe), era diventata la paladina degli abortisti. Ma pochi anni dopo una profonda riflessione personale (vedeva i parchi giochi deserti e si chiedeva: «dove sono finiti tutti i bambini?») e l’incontro decisivo con alcuni militanti pro life di Operation Rescue, una organizzazione cattolica antiabortista, segnarono la svolta. Così, nell’estate di due anni fa, dopo che si era pentita di essere stata lo strumento che ha dato il via libera a circa 40 milioni di aborti nei soli Stati Uniti e si era convertita al cristianesimo («Sono tornata in seno alla mia Madre Chiesa»), ha sfilato davanti alla Corte suprema di Washington con oltre mille donne (che portavano cartelli su cui era scritto «Mi pento del mio aborto»), chiedendo il riesame della decisione del 1973, per rendere di nuovo illegale l’aborto negli States. Tra le manifestanti c’era anche Alveda King, la nipote di Martin Luther King. Riprendendo la celebre frase del leader dei diritti civili, la donna ha sostenuto che «non può sopravvivere il sogno di mio zio se uccidiamo i bambini».
La motivazione della richiesta di riesame era contenuta in un dossier di oltre 5 mila pagine, che documentano i danni fisici e psicologici subiti dalle donne che abortiscono, oltre alle prove tecnologiche oggi disponibili, come l’ecografia, che dimostrano senza ombra di dubbio che la vita inizia già con il concepimento. «Per tutti questi anni mi sono sentita un peso tremendo sulle spalle. Bene, è venuto il momento di riprenderci i nostri bambini. Non vedo l’ora che venga il giorno in cui potrò sentirmi sollevata dal peso della responsabilità di questo olocausto», ha dichiarato la McCorvey.
Purtroppo, dopo più di 30 anni nel corso dei quali una serie di altre sentenze ne hanno consolidato la struttura giuridica, l’aborto legalizzato ha resistito all’offensiva di Jane Roe-Norma McCorvey e delle sue amiche pro life. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti respinto il 22 febbraio 2005 il ricorso presentato dall’ex paladina dell’aborto. Senza commenti, i giudici hanno declinato di esaminare l’appello presentato. La decisione della Corte non è sorprendente: la scelta di riaprire un caso sulla scorta delle cosiddette «mutate circostanze di fatti e di legge», a cui aveva fatto riferimento la McCorvey, è rarissima, e due tribunali di livello inferiore avevano già respinto l’appello, partito nel giugno 2003 da un tribunale distrettuale di Dallas. La richiesta di abrogazione era poi risalita lungo i gradini della giustizia americana, arrivando l’anno scorso alla Corte d’Appello federale della Louisiana.
Ma la battaglia di Norma per la vita continua. «Fu un giorno molto brutto in America quando venne consentito a una madre di uccidere il suo bambino», afferma. Quel giorno, prima o poi, lo vuole cancellare.
IL TIMONE – N. 42 – ANNO VII – Aprile 2005 – pag. 12-13